Rolando Damiani in Il Gazzettino, 25 giugno 1982, p. 4
Filosofia
Manlio Sgalambro, La morte del sole, Adelphi, lire 12.000.
Nella universale mancanza di idee ritorna bellamente alla moda la figura un po’ torva del filosofo, degna ormai di una copertina di Time, di uno «special» televisivo ad alto gradimento o di un angolino di meditazione a una festa di partito. Omini fino a ieri inosservati balzano alle cronache, come suol dirsi, nominandosi senza troppi riguardi accanto a Eraclito e Parmenide, Heidegger e Nietzsche; in piena esaltazione, come impiegatucci toccati da un’improvvisa fortuna, si mettono a ragionare non per ere ma per cicli cosmici, ciascuno convincendosi, nel suo delirio di «parvenu» dello spirito, di essere l’ultima parola, l’ultimo grido.
Con molte diffidenze si apre dunque un volume di un filosofo già segnato da un nome che fa uno strano effetto di brivido, Sgalambro, e invece, leggendolo in una prosa che tanto assomiglia a una prodigiosa vegetazione desertica, si ha subito l’impressione di avere per miracolo tra le mani un libro nuovo e incontaminato, di un pensatore duro e lucente come diamante, che guarda la verità in viso senza infingimenti né calcoli, non aspettandosi nulla e niente avendo da perdere, perché è sempre già tutto perduto. Il «tristo vero» è infatti il suo argomento, il terrore che governa la realtà e ne rivela il significato, così che Poe, esperto di spaventi, è anche «l’ultimo scrittore in cui si conserva intatto il senso del reale», ma questa scienza al nero Sgalambro non si è dato gran conto di diffonderla, se pubblica questo suo primo libro stupendo (giacché, come suonano due versi leopardiani qui in perfetta sintonia: «conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero») in età non più giovane, non offrendo alcuna notizia di sé, fuorché la sua nascita a Lentini come il celebre Notaio siciliano.
Il titolo, La morte del sole, riecheggia la paura ottocentesca (poiché «la filosofia moderna ha inizio col dubbio, ma la filosofia interna ha inizio col terrore») che avvolse, intorno agli anni Sessanta nel secolo scorso, poeti scrittori e scienziati, e al tempo stesso raffigura l’esito di spietati e imperituri principi della termodinamica che condannano la vita al caos materico, alla dissoluzione della sua vana sostanza nel magma informe dell’universo. Si riafferma infatti con Sgalambro quella visione cosmologica della condizione umana, di un trascendentale ovvero matematico pessimismo, alla quale Schopenhauer diede un’estrema definizione; per Sgalambro, come tutti i pensatori del disincarto, da Leopardt a Michelstaedter (per seguire tracce moderne e italiane), la verità eternamente in gioco, e ora da lui rinomata con parole taglienti e scabre come pietre arse della Sicilia, è quella di Qohélet. Si può anzi dire, paradossalmente, che il libro di Sgalambro, sia una sorta di commento «in articulo mortis» dei versetti iniziali, sacri al pensiero, dell’Ecclesiaste: «Un infinito vuoto, un infinito niente, tutto è vuoto niente. Tanto soffrire d’uomo sotto il sole che cosa vale? … Il sole sorge e il sole tramonta».
Pensieri del tramonto possono essere definiti gli aforismi di Sgalambro, orchestrati in cinque parti; «minima theoretica» coniati al calar del sole, mentre all’orizzonte si stagliano le grandi ombre degli interpreti della «fine»: Spengler, Benn, Proust, Adorno… ma anche Spinoza e Kant, Hegel e Simmel («noncurante padre della filosofia minore»), Husserl e Frege sono letti alla luce degli ultimi terribili bagliori di un sole che sprofonda, rivelando la totale realizzazione dei suoi valori nel buio che lo inghiotte.
Eppure, come libera il cuore, quanto gusto dà all’istante, quale ebbrezza della mente e dei sensi scatena la contemplazione del tristo vero, illuminato a fuoco dall’astro che declina. Quanto qoheletico abbandono a vivere, sospinti dalla verità dell’Ecclesiaste: «l’unico bene che ha l’uomo sotto il sole è mangiare bere godere», viene ispirato da una filosofia saturnina e senza speranza, che disdegna uomini e cose, e solo ricerca «un pensiero perfetto, che luccichi come diamante, che ne segua le leggi del taglio». Sono sempre infatti, come dice Sgalambro, le filosofie peggiori a pretendere di «migliorare» il mondo.