Fausto Gianfranceschi in Il Tempo, 15 giugno 1982, p. 3
Le contraddizioni dell’ultimo nichilista
Un tempo la moda culturale era il prodotto esteriore e superficialmente diffuso del grande pensiero. I pensatori geniali «cercavano» un costume intellettuale che si espandeva a temperatura raffreddata nella società. Oggi accade il contrario. Con la crisi delle illusioni ideologiche va di moda il nichilismo, ed ecco che una casa editrice attenta agli umori intellettuali «scopre » un filosofo adatto ai tempi, Manlio Sgalambro da Lentini, fino a ieri muto e ignoto. Siccome la moda sopravanza il pensiero, il filosofo non è di primo pelo: fino a ieri poteva mostrarsi bravissimo, poteva scrivere cose bellissime, e intanto il tempo trascorreva inesorabile, ma per la cultura e l’editoria era come non esistesse; perciò è stato costretto a nascere letterariamente a cinquantotto anni, con il suo primo e forse ultimo libro: La morte del sole (Adelphi).
Se il «sistema della moda» induce a qualche malinconia, c’è anche da rallegrarsi per l’imprevedibile inesauribilità dell’Italia «nascosta», giacché Sgalambro vale, non è un’invenzione, nelle sue pagine c’è sapere (non dico sapienza), sale e stile. Non a caso anche lui – come Bufalino, letterato sopravvissuto alla «glaciazione» neorealista e sperimentalista – risiede in Sicilia, quasi l’Isola fosse un simbolico serbatoio di risposte alle certezze logorate del nordismo affaristico e industriale.
Diversamente dal nichilismo morbido e consolatorio di Vattimo, il nichilismo di Sgalambro è duro, senza spiragli, senza consolazioni e senza alternative: lo si può definire meglio come pessimismo radicale. Nel risvolto di copertina siamo avvertiti che leggendo tutto il libro non sapremo a quale «scuola» appartenga l’autore; invece a me sembra che almeno due «maestri», per quanto antichi, siano individuabili, uno nominato e l’altro taciuto: l’Ecclesiaste («tutto è vanità…») e Lucrezio, sottoposti anch’essi a ulteriori sottrazioni di senso. L’Ecclesiaste raccomanda di guardarsi dall’empietà, mentre Sgalambro ne fa un fondamento del suo pensiero; Lucrezio si immalinconisce per la pochezza dell’uomo, crede che gli dei siano troppo lontani per curarsene, ma almeno percepisce poeticamente la grandiosità e la tragicità degli eventi cosmici, mentre nel nuovo filosofo il cosmo suscita soltanto orrore.
Sgalambro osserva che la filosofia moderna – con la quale dialoga puntigliosamente come un amante deluso, da Kant a Schelling, Hegel, Schopenhauer – ha cercato di cancellare il mondo. Prima l’idealismo, poi l’ideologismo e l’ingolfamento nella prassi, hanno distolto lo sguardo dall’uomo dal reale e dal vero, i quali sono la feroce caoticità dell’universo, l’incommensurabilità del tempo e dello spazio cosmici al cui cospetto l’uomo si annulla, non è altro che polvere, la sua unica ed eterna evidenza è il cadavere. D’altronde la stessa illusione di nascondersi alla verità accecandosi nella prassi si rovescia nella fine dell’illusione: proprio la scienza torna a richiamare l’attenzione sul cosmo «selvaggio», sull’esplosivo nascere vagabondare e spegnersi di mondi lontani fino a ieri imperscrutabili, il cui spettacolo dovrebbe bastare all’annichilimento di ogni superbia e di ogni speranza; proprio la scienza rivela, con la seconda legge della termodinamica, che il fine di tutto è l’estinzione. Anche il sole si spegnerà, sebbene l’evento cadrà fra milioni di anni, noi siamo già contemporanei della fine perché il ciclo delle «invenzioni» metafisiche e delle costruzioni filosofiche possibili per celare il vero, si è esaurito, e ormai più nulla ci separa dalla percezione del nulla impassibile che ci schiaccia.
A lettura ultimata si nota che, tuttavia, il filosofo non smette di pensare, scrivere e compiacersi del suo stile. Se il vero fosse quello che egli descrive, e se egli lo avesse davvero conquistato, a che varrebbe scrivere? Una sfida al destino? Ma la sfida non ha senso, se il destino è svelato nella sua ineluttabilità proprio da colui che dovrebbe sfidarlo. Resta il piacere – e il filosofo lo confessa – di coniare «un pensiero perfetto, che luccichi come un diamante, che ne segua le leggi del taglio», ossia un bel pensiero, da tradurre in bella pagina. Almeno un valore, dunque, si salva astutamente dalla catastrofe. Un diamante brilla come modello di perfezione e di bellezza pur all’interno del cosmo casuale, brutale e selvaggio. E bisogna ammettere che il gusto per l’eleganza, per il taglio fulminante dello stile, è un pregio non secondario del libro di Sgalambro, benché contraddittorio con la «lezione».
Respinti dalla prosa dei sociologi, dei saggisti ideologizzati, o di alcuni nuovi filosofi tanto sofisticati da rendersi quasi illeggibili, è piacevole incontrare un teorizzatore che adopra così bene la lingua, ridandogli lucentezza, nonostante l’acre sapore della sua teoria.
E non è l’unico pregio. Collocandosi con franchezza nella dimensione filosofica dell’ateismo e del post-illuminismo, Sgalambro elimina rigorosamente qualsiasi tentazione di elaborare nuovi ottimismi ideologici dopo il tramonto di quelli vecchi scontratisi con i loro orrori, sopprime qualsiasi tentazione di ridare il vigore di una falsa trascendenza a vecchie immagini immanenti come la Storia, il Progresso, i Domani Migliori. La partita si gioca qui e ora, nel terribile paradosso dell’esistenza del pensiero. Non è allora senza interesse il reclamato ritorno alla filosofia come puro esercizio interiore che libera dalle illusioni accumulatesi in due secoli di ottimismo laico. E Sgalambro è inesorabile nel localizzare gli interstizi ove il pensiero moderno, da Kant a oggi, si vanifica.
Ma c’è un limite oltre il quale l’ipercriticismo di Sgalambro si trasforma da questione filosofica in questione di temperamento (si potrebbe anche configurare una questione letteraria, rintracciando gli echi del pessimismo dei conterranei Pirandello e Tommasi di Lampedusa, però il discorso si allargherebbe troppo). Per Sgalambro, nella malvagità si manifesta l’essenza della totalità, trasmettendo a chi la contempla un «brivido cosmiсо». Ma ad altri temperamenti, non meno affinati del suo, il «brivido cosmico» è trasmesso invece dalla contemplazione della bellezza profusa nella vita e nella natura (come nel «diamante» sfuggito alla sua masochistica attenzione). Così Francesco traeva dalla contemplazione del creato la forza di chiamare «sorella» anche la morte.
Come in un muto e involontario dialogo con l’altra dimensione che è stata dichiarata a priori e superbamente inesistente, molti passi di Sgalambro si offrono a una doppia, opposta lettura. È toccante la pagina che indaga l’effetto di «risveglio» provocato dalla realtà quando si manifesta in maniera avversa. Per pessimismo del filosofo, ciò dimostra che il vero è la negazione crudele dell’uomo; ma a una lettura religiosa il contrasto appare come la conferma dell’imperfezione umana anelante alla salvezza, dello scontro fra illusione mondana e durezza esistenziale, infine della dialettica fra inadeguatezza terrena e aspirazione all’assoluto, che – a caso? – appartiene soltanto all’uomo.
Quando Sgalambro decreta la fine dell’umanesimo, con il suo orgoglio per il pensiero e l’azione autonomi, in realtà decreta il fallimento di un’immagine dell’uomo mutilata dell’aspirazione trascendente. La verità, afferma il filosofo, si mostra ormai come «il mondo senza l’uomo». Ma in verità l’uomo, questa contraddizione, continua a esistere: e se le difese costruite dall’ateismo non possono più consentirglielo, vuol dire che continua a esistere in virtù di quella parte di natura, trascendente i limiti del mondo, che l’ateismo gli nega.
D’altronde è sempre pericoloso basare giudizi filosofici sugli sviluppi del pensiero sotto forma di conoscenze scientifiche. Sgalambro osserva che matematica e scienze fisiche ci restituiscono le immagini di un mondo «il cui senso non è per noi». Curiosamente, nel dibattito internazionale tra i fisici si sta introducendo il Principio Antropico, per il quale le costanti del macrocosmo e del microcosmo avrebbero un senso soltanto partendo dall’uomo, dalle sue specifiche esigenze vitali. L’idea si presterà a infinite discussioni, e non risolve i problemi esistenziali: ma suona ugualmente come un richiamo ai limiti dello stesso pessimismo.
La chiave «temperamentale» del libro è custodita nelle ultime pagine, quando il filosofo ammette di subire il ronzio incessante del pensiero come una condanna ai voleri capricciosi e azzannanti di un mostro. Sembra la confessione di una nevrosi, prodotta dai traumi mentali di un ateismo conseguente.