Il filosofo, quest’insolente pitocco

Renato Minore in Il Messaggero, 30 aprile 1982, p. 3

Catania. Abita al primo piano al centro di Catania. La facciata conserva una sua dignità architettonica da inizio Novecento, l’ingresso è fatiscente. Si bussa e una moglie premurosa conduce nello studio che è proprio all’entrata, isolato rispetto alla casa che si abitata come da cinque figli tra i sedici e gli otto anni. Di fronte al modesto tavolino da lavoro c’è una parete altissima di libri, molti dei quali nella lingua originaria. Dominano i classici della filosofia tedesca: Kant, Hegel, Schopenhauer. Questo è il regno di Manlio Sgalambro, il filosofo di cui probabilmente si parlerà nei mesi futuri come di un’autentica rivelazione. Le sorprese del panorama culturale da un po’ di tempo sembrano essere tutte decentrate. Ieri Bufalino da Comiso, oggi Sgalambro da Lentini, entrambi dello stesso lembo di Sicilia: metafisica, barocchetta, immobile.
Di Sgalambro, Adelphi ha appena pubblicato il primo libro, forse l’unico: La morte del sole. Già la citazione hegeliana con cui esso inizia è un assaggio sufficiente per quotarne la sua ambizione: «C’è molto movimento movimento, ma movimento di vermi». Sgalambro combatte un autentico corpo a corpo con i filosofi tanto amati, li percorre con furia e impassibilità, torna alla luce portando la perla preziosa di una citazione, di una frase, di un ammicco spesso anche letterario. Come quando allude a «Morgue» di Benn, uno dei suoi autori preferiti: «Corpi che si sfasciano, carni putrefatte, ureteri che gocciolano, vagine maleodoranti, retti che si svuotano e, tra l’uno l’altro, l’irrequieto sperma che semina vita. La pietra che dura più di me, la noia, il dolore, il fetore dell’alito, specchio dell’anima».
Sgalambro sostiene che le filosofie «peggiori» sono quelle che «migliorano» il mondo. Per lui la verità «è un muto cenno che viene rivolto alla vittima designata»; per lui «l’idea eterna dell’uomo è il suo cadavere». Ironizza sulle «ultime novità», sui flash d’agenzia cui è legata «la massa urbana». Ed è ambiguamente attratto da questa massa che vive in quella che lui (come tanti altri pensatori apocalittici) chiama «la città mondiale», un vero e proprio «nuovo luogo dove si celebra il vuoto e si attende che il nuovo destino si compia».
Quello che più colpisce è suo stile: prosciugato e fulmineo, scintillante e inesorabile. Si arriva alla fine come stremati e stregati da questa parola «che non spera nulla, che non aspetta nulla». E nelle ultime pagine c’è una sorta di impassibile ritratto di una specie rara quasi in estinzione, il pensatore, immerso nella «quotidiana tortura», con i nervi che, tesi sotto il peso delle cose, emettono «acuti segnali, che gli altri raccolgono solo come pensieri».
Quali segnali arrivano da quest’uomo, da questo disincantato siciliano cinquantottenne che si appresta al rito dell’intervista da osservatore il quale ha deciso di guardare da vicino «la faccenda del libro», di come «si montano queste cose, di come si mettono su»? C’è, innanzitutto, il gesto masochistico di chi si è voluto cancellare per quasi quarant’anni, rinunziando a tutto (anche all’obiettivo più a portata di mano: una laurea in filosofia) e accettando il ruolo precario di «piccolo, piccolissimo possidente agrumario» integrato da lavori d’ogni tipo: compilatore «nero» di tesi a brevi supplenze. Tutto ciò ha permesso una certa «organizzazione del bisogni» connesso all’intendimento preciso «di non assumere oneri pratici». Perché questa scelta?
«Non tutti possiamo occuparci tutti degli stessi problemi. Bisogna far forza su alcune accidentalità della propria vita per poter pensare ad altro. Quel minimo che ho mi consente di poter fare a meno di occuparmi di problemi economici. Сіò non lo considero un errore. Al contrario. Tra l’altro, ci sono decine di migliaia di persone che si interessano di queste faccende; dalla fine della seconda guerra mondiale l’Europa non s’è occupata che di problemi economici da un punto di vista teorico. Perché dovrei farmene carico io, poveraccio? Io mi occupo di ciò che mi interessa».

Ma vedrà pure un rapporto tra questa sua «libertà» e quello che ha scritto. Non voglio fare del sociologismo rozzo, però…

«La domanda è pertinente. I tanti milioni di sesterzi che possedeva Seneca non credo che siano irrivelanti nel considerare la sua saggezza».

C’è poi questa sua seconda scelta: vivere qui in provincia.

«A Catania vivo dal ’47. Prima stavo a Lentini. Ho un po’ viaggiato per ragioni di studio. Vivo qui, dove ogni tanto nasce qualche iniziativa, ma tutte spengono. Oppure sono velleità e non nascono come discussione».

Si lamenta?

«No. Forse qui c’è una calma sufficiente per potere guardare cose in maniera spersonalizzata. C’è quella possibilità che una volta era la possibilità della saggezza, di una situazione conoscitiva più favorevole. La città rende saggi per forza».

Qui, però, lei vive isolato…

«Vedo pochissime persone, un prete, qualche professore di università. D’altro canto non ho mai mitizzato la vita di qui, non ho mai avuto la febbre quartana di certo folklorismo che coglie alcuni letterati. Sono uno di qui, ma nella misura in cui non intendo esserlo, anche questo avrà un certo valore. È un osservatorio, il mio. Ci sto, ci debbo stare».

Non c’è nessuna illusione comunitaria nel suo discorso.

«Ma vede, in queste campagnuzze, non si trova una vita databile ma neppure indatabile. Nemmeno la vita arcaica e nemmeno la vita dell’Ottocento. Non è la grande città. Questi paesi che sono privi di connotati hanno come emblemi individui senza connotati, come se avessero subito quel lavaggio quel ridimensionamento di cui si dice che sono responsabili le grandi città».

È un fenomeno conosciuto: lo scardinamento dei valori connesso alla crisi dei valori tradizionali.

«No, assolutamente no. I valori sono ben realizzati, semplicemente, altro che scardinati. La civiltà al suo compimento li realizza dopo averli per tanto tempo solo sognati. La crisi comincia da quel momento. Libertà, salute, reciproca fiducia, il bene in tutti i sensi sono divenuti. Ma i valori realizzati mostrano i loro limiti che come sogno erano rimasti celati. La loro stupidità irrimediabile».

Questa idea è costante nel suo libro. La miseria di ciò che è alla portata di tutte le borse (penso alle sue pagine di fuoco sul «conoscere senza fatica», sullo «stomachevole concetto di formazione») nasconde il terrore della realtà: «Sta in agguato la paura». Ecco allora la filosofia.

«La competenza del filosofo la vedrei proprio qui. Lui arriva post mortem, come medico legale, come l’anatomista. Spicca il suo volo al crepuscolo, quando cioè tutto è finito, non c’è più niente da fare. C’è da vivisezionare. Non è una scienza protagonista, è una specie di lamentazione, forse».

Ma oggi tutti parlano di ritorno alla filosofia: lei stesso, con il lancio che le si prepara, è dentro il fenomeno. C’è un innegabile protagonismo della filosofia, ora.

«Lo spirito del mondo gioca i suoi scherzi e chiunque vi è messo dentro. In ogni caso è necessario che la filosofia ritorni ad essere quello che deve essere, con un ruolo minore,  monologante, di commentatore. Non come forma di comunicazione. Perché il rischio è di tramutarsi in ideologia. Una volta, forse, la filosofia informava: su Dio, sul mondo. Nell’ambito del sistema medioevale Dio è un mezzo di comunicazione di massa perché comunica, aggrega, costituisce fonte di notizie e di informazione per il conducimento della propria vita. Ma guai al filosofo che si traveste da ideologo! Il filosofo è un piccolo aggeggio che si mette nell’ingranaggio e tenta di disturbarlo: non perché voglia disturbare ma perché questa è la sua funzione. È il parassita molesto della prassi che, in ogni momento, ogni giorno, ogni notte, si agita e si riposa travestita da milioni di uomini, per riprodurre le cose».

Tra tanti che tornano a parlare di filosofia, sente di avere dei compagni di viaggio?

«Ogni filosofia è sola. Il filosofo brucia progetti, continuamente, come il poeta. Ne salverà uno? Oppure no? Non so. Compagni di viaggio? Non so. Vede sono tanti anni che coltivo il discorso filosofico e l’ho visto spegnersi attorno a me, lentamente. C’è un tipo di filosofia all’italiana anche nella composizione del libro: il libro è composto di cose uscite qua e là, da esperienze molteplici chiuse da un’avvertenza».

Vuol dire che non ha punti di riferimento?

«Oggi i nostri giovani filosofi non leggono la storia della filosofia, non leggono i grandi autori della storia della filosofia dell’Ottocento. Qui c’è la storia, ma c’è ancora l’abbandono alla filosofia, c’è questo cedere ad essa. D’altro canto questi giovani fanno rumore: la loro è una filosofia giovanilistica, robusta, di iniziative, di coraggio, iattante e sicura. Cosa vuole che possa dire io che ho i nervi stanchissimi e rotti?».

L’immagine dell’uomo provato dai nervi ricorre costantemente nel suo libro. Si direbbe una sorta di maschera conoscitiva.

«Io credo che oggi sia necessaria, più che una Critica della Ragione, una Critica dei Nervi, ben diversa da quella di Freud. Una critica che esamini la funzione delle grandi nevrosi nei riguardi della conoscenza, non nei riguardi dell’individuo. Continuamente si liberano situazioni nevrotiche; non a difesa dell’individuo ma a difesa di situazioni complessive. Inibiscono conoscenze che sarebbero spiacevoli. Formano blocchi. La nevrosi è paradossalmente una tutela».

Sgalambro è inesauribile. Parlerebbe per ore dei suoi argomenti preferiti. Mi dice che «almeno una volta nella propria vita bisogna abbandonarsi alla autorità di una filosofia», che il nostro potrebbe essere un tempo propizio alla riflessione «perché il lavoro di disillusione lo si fa da tanti punti, lo si fa in tante cose, lo fa la stessa vita quotidiana». Ogni tanto la moglie entra, si informa amorevolmente, va via. Dà l’idea di una realtà familiare abituata a fare i conti con un grande assente: «Sto qui, posso starci anche diciotto ore, anzi potevo starci prima dell’infarto di un’anno fa». Ci congediamo parlando del suo caso che può esplodere. Non ha paura di essere interrogato su tutto, lui che odia l’intellettuale che interviene su ogni argomento, senza averne né l’attendibilità né l’autorità? E come pensa che sarà letto La morte del sole? Il commiato ha punte di contenuto, sarcasmo, come sempre: «II mio scritto non può sottrarsi al suo destino di libro, non c’è dubbio. Si cerca ancora una forma di comunicazione e di espressione diversa. Ma quale? Il rapporto orale? Il guru? Il primo presuppone non questa piazza ma la piazza di Atene. Il guru presuppone l’India, non Milano, non Catania. Quindi il mio è un libro: che sarà letto o non lo sarà, non so. Né, a dirle la verità, mi interessa». E sorride un po’ freddamente, spiando in qualche modo la mia reazione, il mio comportamento.