Alienazione e metamorfosi

Manlio Sgalambro in Tempo Presente. Informazione e discussione, VI, n. 11, novembre 1961, pp. 813-818

«Mettetevi della cera nelle orecchie, altrimenti siete perduti anche voi! Non fate domande! La risposta dell’infelice non fa che irretire anche voi nell’infelicità!» (Brecht)

In piena lotta contro la filosofia e suoi «miracoli», il giovane Marx, nella Sacra Famiglia, scrive: «La filosofia deve discendere dal cielo della speculazione al profondo abisso della miseria umana»; gli anni in cui Marx scriveva questo sono gli stessi in cui egli additava nella filosofia un modo dell’alienazione umana e nel filosofo la misura del mondo alienato e seguono di poco gli anni in cui, considerando le epoche nelle quali non può più dominare una filosofia totale perché la realtà stessa ormai non lo consente, cosi si esprimeva: «Sono epoche di ferro e di sventura perché gli Dei sono morti e la nuova Dea conserva, immediatamente, l’oscura forma del destino, della pura luce o delle pure tenebre: i colori del giorno le mancano ancora»1.

La mira di Marx, nella Sacra Famiglia, era quella di scoprire i «misteri», come lui li chiamava, della «costruzione speculativa» e lo interessava soprattutto quella «infinita piccolezza» che agli occhi della filosofia assumeva l’uomo reale, e ciò non certo per proclamare al suo posto l’«importanza dell’uomo»; a Marx non importava niente di essa e sapeva, anzi, che non appena si parla dell’importanza dell’uomo, immediatamente e di colpo non si parla più dell’uomo ma di ciò che ne ha preso il posto; a Marx interessava la miseria e non l’importanza dell’uomo ed è ad essa che riteneva urgente rimandare la stessa filosofia. Ma, per dire la verità, questa sua affermazione: «La filosofia deve discendere dal cielo della speculazione al profondo abisso della miseria umana», con tutto quello che essa rappresenta, non coglie di sorpresa nessuno e tanto meno poi la stessa filosofia la quale, com’è noto, sa saggiamente amministrare le sue cose; nel corso della sua storia essa ha effettuato innumerevoli volte questa discesa e se n’è sempre trovata bene, giovandosene anzi per risalire ancora più in alto. Si sanno, ad esempio, le meravigliose certezze che ne riportarono Agostino e Descartes, come quelle che oggi ne riportano Lukács e Lefebvre; ma Marx, lui, che cosa voleva? Quale guadagno se ne riprometteva per la filosofia, o quale perdita?

Quando Agostino parla della miseria umana, quello che gli importa soprattutto rilevare è indubbiamente questo: «Per miserabile e infelice che tu sia – egli ci dice – tu preferirai essere cosi come sei che non essere del tutto» (De Lib. arb., L. III, cap. IV). Certo non era questo che se ne riprometteva Marx e non era per questo che voleva che la filosofia scendesse in quell’abisso; ci fu un momento, anzi, in cui egli giudicava che è preferibile non essere del tutto che (per usare ancora le parole di Agostino) essere miserabili e infelici, e in cui sosteneva che proprio questa è la situazione limite dell’uomo che vive una vita alienata2. Senza dubbio considerazioni del genere hanno ben poco a che vedere con Marx (o perlomeno con il Marx che interessa oggi) e niente affatto con la filosofia marxista. Che l’uomo possa non volerne sapere di vivere una vita alienata, di questo dopotutto la filosofia marxista non sa ormai che cosa farsene e, in ogni caso, non è più su questa disperazione che essa può fondarsi; l’ambizione del marxismo teorico è ora quella di essere un sapere e una scienza, e una infinita piccolezza di questo genere non può esser certo il fondamento d’un sapere, se mai può essere il fondamento di qualche cosa. Che significato potrebbe quindi avere, per la filosofia marxista, un marxismo disperato?

Che i problemi che nascono dalla disperazione non riguardino la filosofia marxista è quello che stabilisce con abbastanza fermezza Lefebvre; ad essi, egli dice in L’existentialisme, «il marxismo risponde in nome della vita, in nome dell’amore della vita» e dopo avere aggiunto che l’umanismo marxista deve accettare la vita nella sua totalità ribatte: «Perché scegliere tra la vita e la morte?». In realtà l’evidenza di Agostino ha convinto Lefebvre, come già tanti altri prima di lui; Agostino ci assicura che «se qualcuno dicesse “preferisco non essere piuttosto che essere infelice”, egli risponderebbe “tu menti”» (De Lib. arb., L. III, cap. VI) e Lefebvre pure. E qualora si cercassero ragioni più decisive dei «mentiris», Lefebvre aggiungerebbe – come di fatto avviene – che il marxismo è una scienza e che questo deve bastare. Le vie per cui egli trova il marxismo non sono certo le grida e le maledizioni dell’uomo alienato, ma quelle del cogito; come egli scrive: «Se sviluppiamo dialetticamente… il passaggio dall’io pensante al pensiero in generale e dall’essere pensato all’essere pieno e concreto, troviamo il materialismo dialettico» (Descartes, p. 286). Noi non dubitiamo che tutto ciò possa avvenire, anzi: le vie del cogito sono infinite e possono condurre dovunque, ma a un certo momento, che portino al marxismo o altrove, quello che è assolutamente sicuro è che conducono a un punto in cui non è più possibile chiedersi perché vivere, perché il cogito ergo sum sbarra la strada a chiunque continui a dubitare anche dopo che la filosofia ha deciso che ormai è impossibile e lo inchioda definitivamente a quella situazione che, secondo la denunzia di Marx, ha costretto l’uomo a fare anche «della sua essenza soltanto un mezzo per la sua esistenza» (Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. Bobbio, p. 89) e quindi del significato e del perché della sua vita soltanto un mezzo per la sua vita.

Che l’uomo che vive una vita alienata sia proprio in questa situazione, Lefebvre certamente non lo negherà, ma egli sa quel che fare: basta che l’alienazione sia divenuta cosciente, egli afferma, perché essa sia rigettata nell’apparenza e oltrepassata (Critique de la vie quotidienne, 2ª ed., 1958, p. 183). E ciò su cui egli insiste è sempre questo: se, ripete, non vorremo trovare il segreto dell’esistenza in un momento privilegiato di tristezza o di abbiezione, allora potremo accettare la vita nella sua totalità (L’existentialisme, pp. 90-91). A dire il vero, è proprio qui che Marx pone la chiave dell’esistenza dell’uomo alienato: egli la caratterizza come quella di «un essere umiliato, assoggettato, abbandonato e abbietto» (Marx-Engels, Werke, I, p. 385) e la coscienza di questa alienazione per Marx non ci libera da essa, come per Lefebvre («L’aliénation, devenue consciente, donc rejetée dans l’apparence et dépassée…»), ma ce la rende «ancora più opprimente» («noch drückender», op. cit., p. 381). Tutto ciò però per Lefebvre evidentemente non conta; quello che conta è la «totalità». Ma, non è una filosofia totale – e quindi un’accettazione totale della vita – che Marx non riteneva possibile in un’epoca dominata dalla Lebensnot, in un’epoca di «sventura» a cui «mancano ancora i colori del giorno»?

È con Lukács che nella filosofia marxista la totalità prende il posto, si può dire, dell’economia : «Non è la predominanza dei motivi economici nella spiegazione della storia – egli dice in Geschichte und Klassenbewusstsein (p. 39) – che distingue in maniera decisiva il marxismo dalla scienza borghese, è il punto di vista della totalità». Ciò naturalmente non è stato senza conseguenze per la filosofia marxista; e prima di tutte il suo disinteresse per quello che Engels chiamava «lo individuo empirico in carne e ossa», «il singolo», aggiungendo che proprio partendo da esso si partiva dalla base, dal materialismo perché l’«universale», l’«uomo» è proprio dal «singolo» che dev’essere derivato e non dall’aria, à la Hegel (Carteggio Marx-Engels, I, p. 16)3. Non solo, ma essa stessa non sa riconoscerla e cade preda di quella Lebensnot che era chiamata a combattere e la vita al suo massimo di alienazione, diventata nient’altro che il bisogno di conservare l’esistenza, le si trasforma nella «vita» e nell’amore per essa. La vita, l’amore per la vita a cui si appella Lefebvre altro non è che quello che Marx chiama, nei Manoscritti, il bisogno di conservare l’esistenza, la sua mistificazione. Così l’«infelicità della società», che è la prima scoperta che Marx fa mediante l’economia (Manoscritti, p. 33), diventa presso Lukács un mero «riflesso psicologico». Con ciò non si vuole negare che Lukács abbia ragione nel combattere la «ontologizzazione» che di questa situazione fa uno Heidegger; ma noi sappiamo che se Lukács chiama così la disperazione dell’uomo alienato è perché tutto ciò a lui interessa solo come «sintomo» da oltrepassare immediatamente verso le sue cause storiche e sociali e non come qualcosa che, in quanto effettivamente vissuto e patito, la messa in luce delle sue cause storiche e sociali non annulla, ma anzi rende «ancora più opprimente».

Come non ricordarsi qui di quanto dice ancora Marx? «L’uomo come essere oggettivo sensibile è quindi un essere passivo e, poiché sente questo suo patire, è un essere appassionato. La passione è la forza essenziale dell’uomo» (Manoscritti, p. 178). La lotta che Lukács conduce contro la disperazione – in La distruzione della ragione – è invece, prima di ogni altra cosa, proprio una lotta contro la passione. L’ammonimento di un Politzer, che Marx aveva denunciato il patto che dava alla filosofia la logica in cambio dell’uomo4, non è cosa che lo riguardi. E comunque è un cambio che egli accetta: proprio quando la logica sembra cedere alla passione ed è in suo nome che Wittgenstein ci dice che «il mondo dei felici è diverso da quello degli infelici» (Tractatus logico-philosophicus, prop. 6.43), Lukács invece ribadisce che esso è lo stesso per tutti e che è la passione che deve cedere alla ragione. Che cosa è avvenuto così delle insistenze di Marx per una definizione dell’uomo come l’essere sofferente e sensibile di cui è proprio la passione che dev’essere considerata la forza essenziale? Non ha allora ragione Sartre quando, nelle Questions de méthode, scrive che la filosofia marxista ha riassorbito l’uomo nell’idea e che quindi è ormai l’idea che le interessa e non l’uomo? Eppure questa era stata la principale accusa che Marx aveva mosso proprio alla filosofia speculativa; come mai ora è la stessa filosofia marxista ad esserne accusata? «C’est à l’intérieur du mouvement de pensée marxiste – continua ancora Sartre – que nous découvrons une faille, dans la mesure où, en dépit de lui-même, le marxisme tend à éliminer le questionneur de son investigation et à faire du questionné l’objet d’un Savoir absolu». È senz’altro quello che avviene in Lukács, a quanto egli dice: «Chi ha raggiunto questo grado di conoscenza (come chiama qui il marxismo) sa già, malgrado tutte le tenebre del momento, da dove siamo venuti e dove siamo diretti. E agli occhi di chi sa questo, il mondo circostante cambia aspetto: egli scorge un’evoluzione logica e coerente là dove prima non gli appariva che una confusione cieca e caotica»5. Quello che così Lukács ci propone non è, ancora una volta, il tertium genus cognitionis? Non è di nuovo il sapere che cambia istantaneamente tutto, e le sue infinite e meravigliose delizie? Senza dubbio per l’uomo che sa, tutto è già risolto e non c’è più né confusione né caos, ma logica e coerenza; ma l’uomo che vive una vita alienata e che è gettato nel marxismo non da un sapere (e comunque non, anzitutto, dal sapere) ma dalla passione, che cosa può farsene di quello che Lukács gli offre in cambio di questa sua maledetta infelicità? Lukács ribatterà dicendo che per Marx il problema è proprio quello di trasformare e non di affermare questa infelicità; senza dubbio, ce lo dice anche Lefebvre; ma abbiamo visto che cosa avviene per Lefebvre: basta che l’alienazione sia divenuta cosciente, perché essa sia rigettata nell’apparenza e oltrepassata; è così, dunque, è ancora una volta così? Ma la direzione in cui Marx trova quel più infelice – che Kierkegaard cercherà invece, e sarà questa la sua condanna, senza trovarlo6 – non fa, qui e ora, del più infelice il protagonista? Se il marxismo non deve eliminare dalla sua indagine colui che la pone (come colui per cui essa è posta), allora il punto di partenza non può essere quello di Lukács – l’uomo «forte, bello e buono» (La letteratura sovietica, p. 99) – ma ancora quello di Marx, l’essere umiliato, abbandonato e abbietto, e per cui la trasformazione non è ancora avvenuta. Non è più il marxismo beato di Lukács, sibbene il marxismo infelice di Sartre7.

Per noi che siamo gettati nell’alienazione, l’alienazione così non è un «oggetto» del sapere, ma il nostro stesso affare. Ed essa non è superata necessariamente dal sapere, ma solo da una praxis che nessun sapere e nessuna necessità garantiscono, esposta a tutti i rischi, anche a quello di finire nel nulla.
Ma il marxismo trasformato in sapere accetterà la possibilità che la praxis possa finire nel nulla? La risposta di Lukács (e con lui di tutto il marxismo teorico) è perentoria: «La certezza ultima che esso ci dà – dice Lukács del marxismo – è che l’evoluzione dell’umanità, in ultima analisi, non si risolverà, non potrà risolversi nel nulla» (Saggi sul realismo, Introduzione, pp. 14-15). Ma quello che può rendere così certo Lukács che l’alienazione scomparirà necessariamente, e che l’evoluzione dell’umanità non potrà risolversi nel nulla, non è più la praxis, ma solo un sapere che se ne è ormai definitivamente separato.
Quali che possano essere le «tenebre del momento», anche se esse si infittissero fino a non farlo più vedere, Lukács non ascolterà la «risposta dell’infelice»; e del resto lui non ha nulla da domandargli. Fra Lukács e il più infelice s’è frapposto il sapere e dove regna il sapere lamenti o collere non hanno più alcun diritto ma solo l’indifferenza solenne di un qualsiasi «io so» e la necessità delle sue evidenze. Mentre il buono e il cattivo dell’etica, ristabilendo daccapo l’importanza dell’uomo, non lasciano più posto per la sua miseria.
Come in Aristotele la «necessità di fermarsi» si è trasformata nell’essere e nella sua necessità ed egli non può che proibire di ricorrere «alla notte, al caos, al non essere» (Met., XII) , così in Lukács è la necessità di andare avanti che si trasforma nell’essere, o meglio in quello che un Garaudy, quest’altro marxista beato, chiamerà la «positività dell’essere» (Humanisme marxiste, 1958, p. 96). Lukács sa dove siamo diretti ed egli ha convertito il punto possibile di arrivo in un punto necessario di partenza; egli parla. in nome dell’uomo già trasformato, dell’uomo «forte, bello e buono» e non dell’individuo alla cui vita l’alienazione ha tolto ogni significato (ha fatto, come dice Marx, della sua essenza soltanto un mezzo per la sua esistenza) gettandolo nella scelta tra vivere e morire. Egli contrappone l’uomo di Aristotele a quest’ultimo e in La distruzione della ragione si appella ai sani istinti vitali, come già Lefebvre all’amore della vita, come ad una specie di ultima ratio. Ed effettivamente non gli assicura Aristotele che «la vita è per natura un bene», e inoltre che per quello che riguarda i principi su cui si fonda ogni sapere «non si deve prendere ad esempio una vita infelice… o trascorsa nei dolori»? (Etica nicomachea, IX). È per questo che Lukács ha scelto l’ontologia dell’uomo naturaliter salvo di Aristotele. E noi potremo insistere quanto vorremo che Marx rappresenta il crollo definitivo di ogni «la vita è per natura un bene», ma Lukács non ci ascolterà nemmeno; e perché dovrebbe ascoltarci? Per lui il più infelice non sarà mai il protagonista ma rimarrà, come già per Aristotele e Hegel, l’antagonista che «non si deve prendere a esempio» e le sue grida e le sue maledizioni delle infinite piccolezze a cui il sapere marxista non può né deve dar retta.
Così anche Lukács è stato soggiogato dalla Lebensnot, la necessità che ha trasformato in necessità il vivere stesso, e il suo atteggiamento verso la vita è ormai quello della filosofia borghese. Quando la filosofia borghese si pone il problema della vita, essa non ammette (perlomeno ex officio) che questo problema è in funzione di un altro «perché vivere?» ma ritiene di avere assolto il suo compito molto prima di arrivare a questo estremo; quanto al resto è inteso che non le appartiene, anzi che non appartiene a nessuno. Pur partendo da opposti punti, Dilthey e Husserl arrivano qui allo stesso risultato. Per Husserl, esattamente come per Dilthey, non si può andare al di là della vita; ciò significa che l’ich lebe non può essere trascinato nel dubbio e che da questo «inferno» (come egli lo chiama) esce più intatto e necessario di prima. Di un dubbio proseguito oltre i suoi risultati metodici, oltre l’ich lebe, oltre l’ego sum; di un dubbio che possa così trasformarsi nella domanda «perché vivere?» Husserl non vorrà sentir parlare. E ciò che lo inquieta di più in uno Heidegger forse è questo: che cosa potrà essere quel domandare più originario e al di là di ogni logica che quest’ultimo propone? L’epoché che si trasforma in angoscia non corre così il rischio di trasformarsi ancora e in qualcosa di più estremo? In una domanda, cioè, a cui l’io vivo e la sua evidenza apodittica non potranno più essere una risposta soddisfacente e definitiva?
D’altra parte, «meglio un cane vivo che un leone morto», come essi usano esprimersi, è egualmente un argomento perentorio per San Tommaso come per i suoi discepoli di oggi; come scrive Maritain (e a proposito dello stesso argomento di Lukács) «Saint Thomas est bien persuadé qu’un chien vivant vaut mieux qu’un lion mort»8. È anche la persuasione di Lukács; sarà questo un aspetto di quella pace storica tra filosofia marxista e tomismo che l’ultimo Lukács, tutto sommato, non disdegnerebbe?

Chiunque dovrà essere, quindi, a rispondere a questo problema, che sia la scienza o la vita stessa, la risposta è sempre una: oltre la vita non si può andare; non importa se sia perché la logica lo impedisce o perché Io impedisca la Lebensnot; quello che importa è che questo «non si può», quale ne sia la sua origine, troverà l’incondizionata approvazione di Husserl – in nome della scienza rigorosa – come già aveva trovato quella di Dilthey che invece rifiutava la scienza e ogni suo erklären. E troverà anche l’approvazione di Lukács. Tutti i suoi pressanti appelli al «superamento dell’angoscia», additato come «il compito ideologico immediato» (Il significato attuale del realismo critico, p. 98), sono lì per provarlo. Egli ammetterà che è perfettamente comprensibile che l’esperienza della realtà contemporanea determini sentimenti di angoscia e di disperazione, la pazzia e il suicidio, ma domanda: «Bisogna fermarsi qui?». Noi lo sappiamo, egli vuole andare avanti, egli è già andato avanti. Ma dove e, soprattutto, come? Sapendo da dove siamo venuti e dove siamo diretti? Ma non ci diceva già Marx che questo rende la situazione «ancora più opprimente»? Lo stesso piccolo-storicista Adorno viene da Lukács chiamato in causa per rassicurarsi che l’angoscia ha perduto la sua autenticità e la sua immediatezza; che essa non è più un’esperienza fondamentale del nostro tempo, ma appartiene al passato. Tutto ciò non prova però altro che il suo sottrarsi fraudolento all’alienazione, a cui tuttavia egli rimarrà tanto più legato quanto più rifiuterà di riconoscerla come qualcosa che riguarda anche lui; perché è proprio quella stessa Lebensnot, che è all’origine dell’alienazione, che ha trasformato il vivere in necessità e reso inappellabile non soltanto la risposta di Husserl ma anche quella di Lukács.
Quanto a Lefebvre, basta che l’alienazione sia divenuta cosciente, ci diceva una volta, perché essa sia rigettata nell’apparenza e superata; ora egli è intento a «superare» il marxismo, a cercare una via nuova; egli la troverà, è così facile trovarla. Ma noi siamo condannati al marxismo ed è ai marxismo che continuiamo a chiedere che cosa farcene della nostra infelicità.
L’io vivo è l’ultima parola della filosofia borghese; ma il marxismo, nello stesso momento in cui discende nell’abisso della miseria umana, non solo si vota all’angoscia della domanda «Perché vivere?», ma anche a una risposta che non potrà più essere la necessità del sum e dell’ich lebe; l’uomo non vuol saperne più di questa «vita da cani» che Lefebvre e Lukács gli raccomandano di conservare a qualsiasi costo. Marx giudicava che è preferibile non vivere del tutto che essere miserabili e infelici, e non accettava le ragioni di Agostino né l’evidenza di Descartes. È la sua promessa: se è l’uomo a decidere se deve vivere, questa volta la sua decisione non sarà più il risultato della logica.
Nessun uomo che vive in una società alienata, dice Della Volpe, «è mai un ente veramente razionale o libero o totale, cioè nessun individuo è mai veramente persona o individuo investito dell’universale o individuo-valore, nessuno è mai veramente, specificatamente, umano» (La libertà comunista, p. 121), ma s’intende che Della Volpe parla degli altri, non di sé; per quel che lo riguarda, egli si sottrae a questa situazione come se ne sottrae Lukács, come se ne sottraggono Lefebvre o Garaudy: essi sono puliti. Il «vecchio sudiciume» di cui parlava Marx non è affar loro; l’alienazione non li tocca. Questi marxisti pelagiani si salvano per virtù di ragione. Essi non hanno bisogno della Veränderung, come Pelagio non aveva bisogno della grazia. La ragione li ha già salvati. Sarà che la filosofia ha compiuto ancora un miracolo e per essi la trasformazione è già avvenuta, o forse quello che qui è avvenuto non è la trasformazione, ma solo e nient’altro che una metamorfosi?
In che senso allora si devono intendere le due affermazioni di Marx, l’una che la filosofia deve discendere nell’abisso della miseria umana e l’altra che la filosofia è un modo dell’alienazione e la sua misura? Senza dubbio esse sono in contraddizione, perché se l’una spinge la filosofia a condividere la miseria umana e quindi ad alienarsi, l’altra ne segna la condanna proprio per questo. Ma non bisognerà che esse rimangano tali? Uscire da questa trappola sarebbe facile; ma per andar dove? A noi la filosofia interessa quando discende, non quando risale. Così essa si perde, certo; ma è la sua unica possibilità, quella di essere non il più nobile dei saperi, ma un sapere ignobile di bisogni e di miserie.

  1. Marx, Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, ed. Einaudi, 1950, p. 505.
  2. Cfr. l’articolo di Marx del ’45 (ma pubblicato nel ’46) Peuchet: del suicidio; v. Scritti politici giovanili, ed. cit., pp. 455-475.
  3. Giustamente osserva Della Volpe che lo scacco di ogni revisionismo sta in questo: «Il mancato apprezzamento adeguato dell’economico, cioè della categoria della particolarità…». Cfr. La libertà comunista, ed. Ferrara, 1946, p. 55.
  4. G. Politzer, Fin d’une parade philosophique, le bergsonisme, 1929. Citiamo dalla riedizione parziale di questo scritto curata da J. Kanapa col titolo Le bergso-nisme, une mystification philosophique, presso le Éditions sociales, 1950; v. ivi, p. 100.
  5. Saggi sul realismo, ed. Einaudi, 1950; Introduzione, p. 12.
  6. Questa impotenza è ben visibile nello scritto Il più infelice. Il carattere estetico dell’infelicità kierkegaardiana fa sì che essa si sopprima nello stesso momento in cui si pone. Il più infelice e il più felice esteticamente si convertono. Nello stesso momento in cui Kierkegaard trova il più infelice, egli lo perde; e quello che egli trova realmente è il più felice. Per questa dialettica senza materia, il passaggio avviene nell’istante; anzi i due movimenti sono contemporanei. C’è bisogno di dire che è ben diverso nel marxismo, dove il tempo è veramente reale?
  7. L’«oggetto» del quale è «l’homme singulier dans le champ social, dans sa classe un milieu d’objets collectifs et des autres hommes singuliers, c’est l’individu aliéné, réifié, mystifié, tel que Pont fait la division du travail et l’exploitation, mais luttant contre l’aliénation au moyen d’instruments faussés et, en dépit de tout, gagnant patiemment du terrain». V. Questions de méthode in Critique de la raison dialectique, Gallimard, 1960, p. 86.
  8. Maritain, L’existentialisme de S. Thomas, nel volume collettivo L’esistenzialismo, Marietti, 1947, p. 52.