Until the end of the world. Sgalambro lettore di Spengler

«L’uomo morale può solo parlare».
(Sgalambro)

L’originalità in filosofia consiste in questo, nel dire il già detto in un’altra guisa. Originale è la capacità di sagomare l’eternità secondo che impone lo spirito del tempo. È un’operazione di design. L’originalità di Manlio Sgalambro, il suo caratteristico design, è nel suo modo di ripresentare, nell’anno 1982, il concetto spengleriano di Weltende (“fine del mondo”).
Le poche pagine su Spengler trovano ricetto nella quinta e ultima parte de La morte del sole, ma ciò non deve ingannare, perché questo libro, che solca come uno zeppelin i cieli italiani dei Cacciari e dei Vattimo, denuncia il suo spenglerismo fin dalla titolazione: la questione della “morte termica” [Wärmetod] è indistinguibile dal tema del Weltende.
Dall’epigrafe al paragrafo 18 de La morte del sole si ricava subito la nota dominante, che è frutto del consonare di nirvana e socialismo1. Etico è il senso del socialismo in Spengler, «che l’accomuna al buddhismo e allo stoicismo con cui si conclude la civiltà classica e lo designa quindi destino della presente»2; e socialistica o etica è la cornice del «fenomeno finale»3. L’organizzazione della vita finale riguarda il fatto stesso di un’«etica da civilizzazione»4. Ma non si tratta della vita nella imminenza della fine del mondo, che sarebbe solo rassegnazione da bestie destinate al macello, bensì della vita esperita nella contemporaneità alla fine del mondo, ciò che invece richiede forza, potenza. Il «socialismo etico», precisa qui Spengler, «non è una dottrina della pietà, dell’umanitarismo, della pace e della previdenza sociale [Fürsorge], ma è un sistema della volontà di potenza [System des Willen zur Macht5. Di questa potenza si serve Sgalambro per anticipare la fine del mondo, per piegarla, curvarla sull’oggi, per renderla presente e persino “attuale”, per quanto si tratti, all’apparenza, dell’attualità di un’assenza. Nasce da ciò il senso della consolazione. Beninteso, non perché i simili muoiono — questo è banale, è vero e banale, banale come il vero —, ma per via della “comunanza” o per meglio dire del comunismo che ne sortisce. Nella contemporaneità agli stati finali l’uomo si libera della scorza biologica — quella che avvolge la categoria del “vivente” — e ne indossa un’altra, raffinatamente spirituale, sottilmente “freudiana”: diventa “morente”. La contemporaneità agli stati finali determina il comunismo dei morenti. Il suo Manifest è Jenseits des Lustprinzips.
Dal vivente non si cava niente di etico, Sgalambro lo sa bene. Il vivente è pura anarchia, è schizzo istintuale e libidine ego(t)istica. Bisogna allora superare il vivente — non nel tempo, perché il tempo non cessa di alimentare l’«animalesca individualità»6, bensì nello spazio desolato, nel deserto cesaristico che lo attende alla fine del mondo. Solo come morente l’uomo si associa e si consola, diventa etico, posto però che associarsi eticamente, come insegna il Marx dei Grundrisse7, è giusto l’opposto di aggregarsi socialmente. Etico è il comunismo dei morenti per antitesi alla società dei viventi. Il comunismo, diciamo così, sta ai morenti come la società ai viventi.
«Il comunismo», incalza Sgalambro «è l’unico ethos possibile per contemporanei della fine del mondo»8. Dunque l’una e l’altra nozione procedono di pari passo, sono esse stesse contemporanee. Anzi la vera contemporaneità, l’unica degna di interrogazione, è quella tra Kommunismus e Weltende. Capire il comunismo, capire perché «i veri filosofi sono naturaliter comunisti»9, importa familiarità teoretica con la fine del mondo. Il comunismo si capisce alla fine, sì, ma a condizione che la fine è già stata.
Ora la ripresa del Weltende cade appunto negli Ottanta del secolo scorso, quando tutto pareva, e lo era, veramente finito. Corbin e Caillois lasciano la casa per ultimi, muoiono nel Settantotto a distanza di pochi mesi, più o meno quando Lacan mima i suoi ultimi seminari in preda all’afasia. Tutto è finito, fini du tout, come recita l’ultima riga de La morte del sole (col richiamo al Benn del Quärter). Saldamente aggrappato a questo spuntone di “quaternario” – vi resterà, già vecchio (noto da vecchio o nato da vecchio?), per altri trent’anni, quasi un’eternità10 –, Sgalambro dissemina le sue versioni della Fine; come quella che segue, forse la più preziosa, tolta da un testo del Novanta:

Egli assumeva […] la fine del mondo come se fosse di già. “Io credo di avere svelato finalmente” scriveva a un amico “l’ultimo segreto della metafisica. Essa concerne ciò che non è mai avvenuto salvo — seguimi bene — salvo nella parola che ne cristallizza, materializzandolo, il ricordo per quando avverrà. Convieni” aggiungeva “che per un metafisico il tempo non è lo stesso che per un venditore di legumi. Tu devi essere contemporaneo della fine del mondo. Ma solo se diventi contemporaneo della fine del mondo, tu devi”11.

L’esibito richiamo al dovere ribadisce, ve ne fosse ancora bisogno, l’alta temperatura etica. Ma questo è ancora Spengler, alla lettera. Il nuovo taglio eseguito sulla stoffa eterna, la stessa che Dostoevskij descrive nel celebre tête-à-bête di Ivan col Diavolo12, riguarda il concetto di contemporaneità, riguarda il design del tempo della fine in cui si dispiega il comunismo. Mentre in Spengler il socialismo della fine è potente perché etico, cioè antieconomico e virtualmente cesaristico, Sgalambro concentra invece tutta l’energia nella parola, la trasforma in un ente potente che piega la fine sul presente e che nel tempo dei viventi, alla fine, sarà cristallo o ricordo. Ciò che nel tempo dei viventi è il ricordo, nel tempo dei morenti è la parola. Solo dal punto di vista dei morenti la parola è reale, giacché piega il futuro sul presente. La parola è reale quando piega il futuro sul presente; diversamente è virtuale, materiale di scarto per la comunicazione. Ne viene che ogni parola è virtuale fuorché la parola comunismo. Il comunismo è la realtà della parola. L’etica, di rimando, è questa curvatura impressa dalla parola reale, dal comunismo, sul tempo.


Note

1 «[…] anche il concetto di un nirvana socialista può essere legittimo […]» (Tramonto, p. 536; Untergang, p. 457).
2 M. Sgalambro, La morte del sole, Milano 1982, p. 195.
3 Ivi, p. 196.
4 Tramonto, p. 543; Untergang, p. 462.
5 Tramonto, p. 544; Untergang, p. 463.
6 M. Sgalambro, Dialogo sul comunismo, Catania 1995, p. 16.
7 «Der Mensch ist […] nicht nur ein geselliges Tier, sondern ein Tier, das nur in der Gesellschaft sich vereinzeln kann» (K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie. Rohentwurf 1857-1858, Berlino 1974, p. 6).
8 M. Sgalambro, Dialogo sul comunismo, cit., p. 37.
9 Ivi, p. 16.
10 Come annuncia, con profetico rigore, ne La consolazione (Milano 1995, p. 82): «Tu non entri, mettiamo, per trent’anni. Ma poi, eccoti, sei dentro, sei entrato e la stanza ti accoglie luminosa, e non sai da dove venga quella luce perché non c’è finestra, e non c’è luce».
11 M. Sgalambro, Anatol, Milano 1990, p. 40.
12 «Indossava una specie di giacca da casa color cannella, di fattura evidentemente eccellente, ma un po’ troppo portata […]» (I Fratelli Karamazov [1880], trad. it. di A. Villa, Torino 1993, p 834). Il tête-à-bête è un motto freudiano (Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten [1905], Francoforte s.M. 1991, p. 20).


Giuseppe Raciti, Until the end of the world. Sgalambro lettore di Spengler in Giuseppe Raciti, Per la critica della notte. Saggio sul Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, Mimesis, Milano, 2014, pp. 131-135

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