Spesso il male di vivere ho incontrato: Manlio Sgalambro e Guido Ceronetti

«Per quanto quel che segue possa dunque essere costituito da minutissimi pezzi, lacerati, chissà, dallo stesso autore in uno dei suoi momenti peggiori, se essi non hanno esaltato solo la sua voce ricevono impresso uno stampo e un ferreo sistema dalla realtà stessa delle cose, come succede a ogni pensiero che non si sia gingillato con se stesso» [M. Sgalambro, De mundo pessimo, Adelphi, Milano, 2004].
«L’unità non è un luogo; il frammento è un luogo, è tutti i luoghi, e l’unità lo abita inapparente» [G. Ceronetti, Tra pensieri, Adelphi, Milano, 1994].
«Se tutte le cose sono conseguite dalla necessità della perfettissima natura di Dio, donde sono sorte in natura tante imperfezioni? E cioè la corruzione delle cose fino al fetore, la deformità che suscita nausea, la confusione, il male, il peccato ecc.» [Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata, I, Appendice].
Il mondo è un frammento morente di Dio, una metastasi cosmica; di Dio dunque bisognerà trattare non con la ragion pura del metafisico ma con la mano infetta del chirurgo.
Del pensare scettico: egli è un cane1 sciolto dalle conventicole del suo tempo, in cui il dubbio, figlio di père Descartes, si affranca dall’affannata ricerca di un metodo che al dubbio stesso sia estraneo per suggellare una hybris disperatamente istrionica2, indulgente alla dissezione, da anatomo-patologo della gnoseologia. Il pensiero scettico, carsicamente, attraversa i secoli e i vernacoli d’Italia periferia dello Spirito per affiorare in pochi, orgogliosi testimoni del Nulla e della sua insopprimibile, paradossale presenza: «Letteralmente, σκεπτικός è chi-si-guarda-intorno, considera, pesa, riflette. Il contrario dello scettico è lo squilibrato, il demente: più in là, unico ad essergli superiore, l’ispirato, il rishi, il navì, il veggente» [G. Ceronetti, Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina, Adelphi, Milano, 1979].
«(…) nel transattualismo emiano, a nostro giudizio, trova il suo momento terminale un movimento di pensiero tipicamente italiano che, a partire da Leopardi, ha avuto uno sviluppo significativo in autori quali Michelstädter, il primo Evola, Martinetti, Rensi (in parte), Tilgher e, naturalmente, Pareyson. Alcuni di questi pensatori, se si vuole, rappresentano, anche sotto il profilo filosofico-politico, il momento scettico dell’ideologia italiana» [G. Sessa, La meraviglia del nulla – Vita e filosofia di Andrea Emo, Bietti, Milano, 2014].
All’elenco sopra esposto mi sento di aggiungere due autori pressoché coetanei, senz’altro consanguinei sebbene animati da differenti furori: Manlio Sgalambro (Lentini 1924 – Catania 2014) e Guido Ceronetti (Torino 1927); tanto il siculo, con la propria opera, sembra ripescare nel mare corrusco della filosofia cinica, del pirronismo e della scuola cirenaica quanto il torinese, poeta e drammaturgo, appare come moderno Tiresia sempre intento a scagliare ‘sermoni di fuoco’ contro i suoi contemporanei. Tanto indifferente è Sgalambro nella sua tassonomia della crudeltà e della insignificanza quanto Ceronetti non nasconde il proprio tragismo profetante («Leggere tutta la Bibbia è una prescrizione assassina. Ci vuole igiene. Affidarsi a un solo oracolo, non a cento; a un solo grido tragico, non a una rissa» G. Ceronetti, D. D. Deliri Disarmati, Einaudi, Torino, 1993, o ancora: «Non si può capire la tragedia greca e neppure l’Antico Testamento in cui il sangue gridava veramente, perché per noi è ammutolito» G. Ceronetti, Quaderni manoscritti, inediti). L’uno accolito di Aristippo e Teodoro l’Ateo, il secondo di Isaia, entrambi discepoli riconosciuti di Schopenhauer («Se vi è un’opera che non avrebbe dovuto essere, questa è Die Welt als Wille und Vorstellung: un fantasma che si aggira per l’Occidente. Tutto la rifiuta, e soprattutto ciò che Schopenhauer chiamò “volontà di vivere”» M. Sgalambro, De mundo pessimo) e della sua misantropia («La misoginia è figlia del mistero. Al contrario, la misantropia è figlia della conoscenza: più si conoscono gli uomini, più si è misantropi. Ma il buon misantropo non fa distinzione di sesso: l’uomo, nelle due versioni proposte dal Creatore, non gli piace» G. Ceronetti, Carte inedite conservate presso la Biblioteca Cantonale di Lugano (Fondo Guido Ceronetti)), come Caraco, Cioran3, Giametta, Gómez Dávila4 e Verrecchia prìncipi elzeviristi della schlechtesphilosophie: «Il pessimismo filosofico ancien régime (ossia Schopenhauer) suppone come punto di riferimento il soggetto primitivo, non il soggetto maturo. Spinoza lo aveva già seppellito con queste parole: l’ignorante appena cessa di soffrire cessa anche di essere. (Tale è la pasta del protagonista del Mondo come volontà e rappresentazione). Il metodo pessimistico comincia quando l’individuo cessa di soffrire e tuttavia si rende conto che non ha cessato di essere. La sofferenza non fa più testo. Ora si può essere pessimisti secondo il metodo» [M. Sgalambro, La conoscenza del peggio, Adelphi, Milano, 2007].
Del pensare breve: quanto più il pensiero è alto – e dunque più si apprende alle cose del mondo come ‘a volo d’uccello’ – tanto più lo specchio che dei sensi tutti riflette l’esperienza (la ragion ‘pura’) sarà rapsodico, erratico nel tener dietro alla soverchiante rapidità del divenire. Così la scrittura, che del pensiero è la coagulazione inchiostrata, si inchina ad essere breve, fulminea e, come il lampo nel cielo, abbagliante.
Quel che li accomuna è il disgusto mai celato della società all’ammasso, l’agostiniana massa damnationis («Non ci si accorge ancora del riprodursi della società come cosa maligna, quando invece per tempo ce ne rendemmo conto della natura. La società si riproduce ciecamente, trae da uomini e cose altri uomini e altre cose, e qualsiasi piano si abbozzi, tosto essa lo rompe e dilaga come se avesse un’esistenza propria che pendesse come una mannaia sul capo di tutti. È la propria esistenza, infatti, che le interessa. Essa pensa solo a esistere e basta. Che per di più debba essere giusta, ecco una pretesa in cui si mostra di non avere capito nulla della sua natura» M. Sgalambro, De mundo pessimo) e delle sue marcescenti istituzioni («La Democrazia come il Governo dei Peggiori, non per usurpazione ma per voto libero: mistero da meditare» G. Ceronetti, Quaderni manoscritti; «La politica è la tutela dei minorati» M. Sgalambro, Dell’indifferenza in materia di società, Adelphi, Milano, 1994; «Oggi soltanto la politica, a tutti gli effetti, fronteggia il deludente quadro della vita, attizzando speranze di cui la più squallida delle religioni si vergognerebbe. La trepidazione di una società si coglie allo spasmo quando si eleggono i suoi rappresentanti. In quel momento la demenza della illusione tocca il suo acme» M. Sgalambro, La conoscenza del peggio), della ripugnanza per la calcificazione delle coscienze asservite alla universalità del Diritto5 nel nome di una aristocrazia dello spirito riottoso ma, laddove in Ceronetti Dio agonizza impotente allo sfacelo che ha generato («Dio non sbarra la strada al male o la sbarrerebbe alla vita» G. Ceronetti, Il Libro di Giobbe, Adelphi, Milano, 1997), in Sgalambro il cielo è vuoto e che Nulla osi prenderne il posto. In entrambi è ben manifesto il piacere di lasciare insuppurate le ferite e anzi di esporne le ulcere, di non volere lasciare il Nulla non-detto.
Eredi di Giobbe e dell’Ecclesiaste («Quel che c’è di più affettuoso, di più cordiale nel rotolo dell’Ecclesiaste è l’assenza di qualsiasi soluzione. Non averla trovata, non aver forzato la soluzione ad applicarsi all’insolubilità delle cose, lasciando l’essere essere l’essere e il destino umano senza una testa, un tronco, una coda, eppure doloroso e frenetico animale, significa veramente aver visto, compreso tutto» G. Ceronetti, Qohélet o l’Ecclesiaste, Einaudi, Torino, 1988), Ceronetti sosta invocante dall’abisso del Salmo CXXIX quanto Sgalambro lo elegge a sua specola. Perché si dia una metafisica la conoscenza non può esimersi dall’essere perì physeos ma ogni conoscenza che si soffermi senza infingimenti sulle cose della natura – secondo quella linea inqui/espositiva iniziata da Lucrezio: «il mondo certo non è fatto per noi, pieno com’è di mali» – non può non riconoscerne l’immanità della bellezza: «Il mondo è come rimasto a metà, come non finito. (…) L’impressione di ‘lasciato a mezzo’ prende corpo in queste sensazioni. Come se lo sforzo per ‘essere’ si fosse interrotto appena agli inizi. Le conclusioni di Kant sulla conoscenza si potrebbero addurre a prova. Fin dove arriva la conoscenza arriva il ‘mondo’ (la totalità dei fenomeni), ma Kant stesso ci mostra, senza volerlo, che ciò è ben poco, e che tutto il resto manca. Anche lui è costretto perciò a fermarsi a metà. i mediocri accordi conoscitivi fra la specie e la natura (ma è destino di questa parola di non rappresentare più quasi niente) non hanno quasi nulla a che vedere con l’uomo nella sua complessità. La natura, con cui si era realizzato persino un accordo sentimentale, rientra nel mondo scomparendo in esso. Mentre col mondo, nel suo senso di ‘tutto’, non è possibile alcun accordo (Quando Husserl dice che la verità è l’accordo, gli sembra di dire tutto quello che c’è da dire. Ma anche l’accordo tra due proposizioni richiede un accordo con tutte le altre, come ricordò Hegel, e quindi col ‘tutto’. Il ‘tutto’, però, è il ‘contro’» [M. Sgalambro, De mundo pessimo].
Chiunque si avvicini con sguardo ‘puro’ alla natura non potrà più sollevare fiducioso gli occhi al cielo; è, quella del filosofo autentico («La filosofia non sopporta di essere collocata nell’ambito della cultura. A quest’ultima appartiene lo stomachevole concetto di formazione» M. Sgalambro, La morte del sole, Adelphi, Milano, 1982), una lanterna che della conoscenza («Una conoscenza priva di un’idea imponente del Male, che non tenga conto del male, che non veda il male del mondo, è una conoscenza in favore del male» G. Ceronetti, Carte inedite) rischiara i recessi più sordidi senza lasciarsi sedurre dalle consolazioni della verità (la verità non consola, atterrisce; l’origine di ogni morale è mendacia) o blandire dalla speranza («Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza» detta San Paolo ai Romani – 8, 24 – e dunque sciabolino le nostre lanterne impietose in ogni recesso ove la speranza ancora si annida) della redenzione: dal Male, dall’empietà non ci si salva, né per fede né in virtù delle opere. Dal Male non si trova scampo perché tutto è, insieme, Bene e Male e dove si vuole l’Uno si deve accogliere anche l’Altro, il prossimo. Ma se Ceronetti, nell’ortodossia del suo gnosticismo, ai ‘perfetti’, ad una ecclesia ancora vuolcredere 6, Sgalambro, ‘fedele’ in questo al suo essere figlio bastardo dell’Illuminismo (se per l’Illuminismo il mondo diventa instrumentum è con l’Idealismo che il mondo vero finì per diventare favola) conoscendo vana qualsiasi illusione questa sola vanità – compiaciutamente – si concede: «Dio non può essere un Ingannatore ma Io sì (…). Il mio principio non è io penso, infatti, ma io mento» [M. Sgalambro, Variazioni e capricci morali, Bompiani, Milano, 2013].
Del pensare critico: la critica è l’arte (τέχνη) del discernere, del decidere, dello spezzare. E spezza l’inganno, la credenza (δόξα) l’uomo che alla domanda «perché l’essere e non il nulla?» osa rispondere «conosco me stesso». Ogni filosofia nasce da questa meraviglia (θαῦμα) scevra di consolazioni, intoccabile dagli dèi, da ogni metafisica. Il filosofo autenticamente critico è un rentier del disincanto7.


Note

1 «L’entrata in scena di Diogene contrassegna una fase, forse la più drammatica, nello sviluppo delle prime concezioni filosofiche della verità in Occidente: mentre la teoria ‘alta’ di Platone aveva irrimediabilmente tagliato ogni legame con la corporeità (…) intrecciando tanto più fittamente i fili del discorso nel tessuto logico, una variante sovversiva di teoria ‘bassa’ faceva la sua apparizione portando all’estremo la pantomima grottesca della propria corporeità tradotta in prassi. (…) Con Diogene, nella filosofia europea inizia la resistenza all’imbroglio del ‘Discorso’. (…) Dal momento che la filosofia può fare ancora solo finta di vivere quel che essa a parole dichiara, ci vuole sfrontatezza a dichiarare quel che si vive» [Peter Sloterdijk, Critica della ragion cinica, Raffaello Cortina, Milano, 2013].
2 «Il fatto è che noi siamo proprio in questa situazione, o i pensieri di Hegel e di Spinoza, con tutto ciò che essi implicano, oppure le chiacchiere e le sciocchezze di Chestov, di Kierkegaard, di Nietzsche. O la serietà di Hegel, o le loro ridicole escandescenze. In un mondo in cui del potere dei giudizi, delle speranze della fede e della stessa azione si sono impadroniti gli uomini che vogliono i fini universali e le cose superiori (le “res aeternae”) agli altri, a quelli che vogliono ciò che la filosofia chiama sprezzantemente le cose “vana et futilia” e la fede “peccati”, non restano che le escandescenze e le “sciocchezze”: è solo l’”insipiens” (…) che dice che non c’è Dio ed è ancora lui a dire mangiamo e beviamo. È così che coloro che hanno attaccato Hegel e il mondo della serietà hanno dovuto diventare oggettivamente ridicoli. Davanti al pensatore serio Hegel, stanno il “buffone” Nietzsche e il piagnucoloso e ridicolo Kierkegaard» [M. Sgalambro, Crepuscolo e notte, Mesogea, Messina, 2011]. Su Spinoza Ceronetti chiosa: «Spinoza rideva, qualche volta, ma pròvati a ridere nel suo sistema. Là il ridere è proibito da guardiani angelici, che dal suo accenno a mostrarsi temono subito un’offesa alla perfezione del Dio che non produce errore o peccato o stortura o smorfia di cui si possa ridere. Per lo stesso motivo non c’è niente di puramente umano, in questa perfezione assoluta, che sia lecito bagnare delle nostre povere lacrime» [G. Ceronetti, La musa ulcerosa. Scritti vari e inediti, Rusconi, Milano, 1978].
3 Cioran, che con Ceronetti ebbe modo di intrattenersi personalmente seppur in sporadiche occasioni, del torinese scrisse un “medaglione” all’editore Gallimard allorché quest’ultimo gli fece richiesta di una didasacalia: «Parigi, 7 Marzo 1983 – Lei mi ha chiesto, caro Amico, che genere d’uomo sia l’autore de Il silenzio del corpo. La sua curiosità è comprensibile, poiché non si può leggere questo libro senza interrogarsi continuamente sul mirabile mostro che lo ha concepito. Devo confessare che l’ho incontrato soltanto nelle sue visite a Parigi. Ma sono stato spesso a contatto con lui al telefono e per lettera. E anche, pur in modo indiretto, grazie a una persona altrettanto straordinaria: un’Italiana di diciannove anni che in qualche modo egli ha allevato e che, due anni fa, venne a Parigi per un soggiorno di alcuni mesi. Di una maturità di spirito inaudita per la sua età, ella aveva spesso reazioni tipiche di una ragazzina, quasi una bambina, e questa miscela di acutezza geniale e di ingenuità faceva sì che fosse impossibile ignorarla per un solo istante. Ella ti penetrava nella vita, era davvero una presenza: come una fata assalita da terrori improvvisi che accrescevano al tempo stesso la sua infelicità e il suo fascino. Ed era ancora più presente nei pensieri e nelle ansie di Guido. Evidentemente io non posso entrare nei dettagli, anche se non c’era niente di impuro o di sospetto da nascondere. Li vedo, come se fosse ieri, tutti e due al Luxembourg, un piovoso pomeriggio di Novembre: lui pallido, cupo, contratto, chino in avanti, e lei tremante, irreale, che lo seguiva a piccoli passi veloci. Non appena li vidi, mi nascosi dietro un albero. Il giorno prima avevo ricevuto da lui una lettera, la più straziante che un essere umano mi abbia mai scritto. La loro apparizione, materializzatasi nel giardino deserto, fece su di me un’impressione di impotenza, di desolazione, che mi ha posseduto a lungo. Ho dimenticato di dirle che fin dal nostro primo incontro, questa sua aria perduta, di non appartenenza, di predestinazione all’esilio in terra, mi fece immediatamente pensare a Muychkine. (Del resto, la lettera in questione aveva un accento dostoevskiano). Lui era per lei inattaccabile, solo lui sfuggiva ai giudizi devastanti che lei esprimeva su tutti. Aveva sposato senza riserve il suo fanatismo vegetariano. Non mangiare come gli altri è più grave che non pensare come gli altri. I princìpi, ma no, i dogmi alimentari di Guido sono di un tale rigore che fa apparire i manuali di ascesi come incitazioni ai bagordi e all’abbuffata. Io stesso sono maniaco della dieta, ma rispetto a lui e a lei mi sento un cannibale. Se non ci si nutre come gli altri a maggior ragione non ci si cura come gli altri. Impossibile immaginare Guido che entra in una farmacia. Un giorno mi chiamò da Roma per chiedermi di comprargli, in un negozio di prodotti naturali di un giovane Vietnamita, una certa patata giapponese, molto efficace pare contro l’artrosi. Se ci si crede, basta sfregarla sulle articolazioni perché il dolore cessi all’istante. Tutte le conquiste del mondo moderno gli fanno orrore, tutto gli ripugna, anche la salute, se deve dipendere dalla chimica. Eppure il suo libro, che promana da una esigenza di purezza, attesta un innegabile gusto per l’orrore: si direbbe un eremita sedotto dall’inferno. Dall’inferno del corpo. Segni evidenti di una salute zoppicante, per non dire minacciata: ascolta i suoi organi, ne è cosciente fino all’ossessione. E la maledizione di trascinare un cadavere è il tema stesso di questo libro. Dall’inizio alla fine, una sequenza di segreti fisiologici che riempiono d’orrore. Si deve ammirare l’autore per il coraggio che ha avuto di leggere così tanti trattati, antichi e moderni, di ginecologia, di un terrificante verismo, capace di scoraggiare per sempre il satiro più pervertito. Un eroismo da guardone in materia di suppurazioni, una curiosità eccitata dalla suprema antipoesia delle mestruazioni, dalle emorragie d’ogni genere e dai miasmi intimi, dall’universo fetido della voluttà, “… la tragedia delle funzioni fisiologiche”. “Le parti del corpo dalle quali emana più odore sono quelle che racchiudono più anima.” “… Tutte le escrezioni dell’anima, tutte le malattie dello spirito, tutto il nero della vita, e noi lo chiamiamo amore.” Leggendo Il silenzio del corpo, ho pensato più di una volta a Huysmans, specialmente alla sua biografia della santa Lydwine de Schiedam. Tranne che per l’essenziale, la santità sorge dalle aberrazioni degli organi, da una sequenza di anomalie, da una inarrestabile varietà di sregolatezze, e ciò vale per tutto ciò che è profondo, intenso, unico. Niente eccessi interiori senza un substrato inconfessabile, anche l’estasi più eterea ricorda in certi aspetti l’estasi bruta. Che Guido sia un amante del deterioramento, truccato da erudito? Talvolta lo penso ma in fondo non è vero che lo penso. Poiché se è vero che ha un debole evidente per il marcio, è per contro altrettanto attratto da ciò che vi è di più puro nella saggezza visionaria o disperata dell’Antico Testamento. Non ha forse lui tradotto mirabilmente Giobbe, l’Ecclesiaste e Isaia? E qui non si tratta di pestilenza e orrore ma di lamento e di grido. Ecco una persona che vive, per una necessità profonda e anche talvolta per i suoi umori, a livelli spirituali differenti. Il suo ultimo libro (La Vita apparente, Edizioni Adelphi, Milano) illustra queste tentazioni contraddittorie, queste preoccupazioni al tempo stesso attuali e atemporali. Ciò che si ama soprattutto in lui è la confessione dei suoi fallimenti. “Io sono un asceta mancato” mi confessa un po’ imbarazzato. Fallimento provvidenziale, perché così siamo sicuri di intenderci, di fare davvero parte della perduta gente. Se lui avesse fatto un passo decisivo verso la salute (è facile immaginarlo come un monaco), avremmo perduto un compagno delizioso, pieno di imperfezioni, di manie e di humour, e la cui voce dalle inflessioni elegiache si accorda con una visione del mondo così evidentemente condannato. Citazioni: “Come può una donna incinta leggere un giornale senza abortire all’istante?”, “Come si fa a giudicare anormali e malati di mente coloro che sono spaventati dal viso umano?” Se lei mi domandasse quali sono le prove che lui ha dovuto passare, io non sarei in grado di risponderle. Tutto ciò che posso dirle è che dà l’impressione di qualcuno ferito così come, mi viene da aggiungere, tutti quelli cui è stato negato il dono dell’illusione. Non abbia paura di incontrarlo: di tutti gli esseri i meno insopportabili sono quelli che odiano gli uomini. Non bisogna mai fuggire da un misantropo».
4 «(…) molte delle intelligenze scomode del Novecento, non in ultimo (…) lo stesso Dávila, dotate, come è stato rilevato, di quella “punta di diamante” capace di cogliere e individuare le insufficienze, le inadeguatezze ideali e materiali del presente, trasmettendo al lettore l’evidenza di un “no” deciso e motivato alle contingenze storiche che sono a monte della modernità e alle conseguenze devastanti da esse prodotte» [G. Sessa, op. cit., corsivo dello stesso Sessa].
5 Criminale non è l’avere mozzato teste coronate o l’avere inquartato migliaia di indigeni nel nome di una nuova Israele. Criminale non è l’avere stabilito, pro lege, l’uguaglianza dei ‘cittadini’ tanto è sfacciata l’inverosimiglianza di questa disposizione. Quel che è da criminali – e della più miserabile specie – è l’avere decretato la felicità e la sua ricerca un diritto (Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, 4 luglio 1776). L’aver voluto trascinare sulla terra la ‘beata riva’, confinata com’era nella più innocua escatologia, e insediarvi, in sua vece, l’utopia costituzionale. La Rivoluzione si macchia di sangue non per aver proclamato la repubblica ma quando sancisce che sia realizzabile per l’uomo, qui e ora, la felicità. E la felicità è un lusso che non possiamo permetterci.
6 «Solo chi crede può essere pessimista e della fede il pessimismo è insieme il lamento e l’invocazione» [G. Morra, Breviario del pessimista, Rubbettino, Catanzaro, 2001].
7 «Filosofare non è un’attività puramente intellettuale che possa venir esaustivamente chiarita e giustificata. (…) Filosofare presuppone un atto di coraggio, un’assunzione risoluta di rischio (…). Il filosofo dovrebbe far sua l’arte di restare, per tutta la vita, sospeso in un certo senso a una posizione precaria, dal momento che egli non potrà mai scalzare la sua decisione ricorrendo a certezze acquisite» [Jan Patočka, Capitoli dalla filosofia contemporanea, citato in Caterina Croce, La via critica della cura tra Jan Patočka e Michel FoucaultCollegamento esterno].


Luca Ormelli, Spesso il male di vivere ho incontrato: Manlio Sgalambro e Guido Ceronetti in “Filosofia e Nuovi Sentieri”, 6 luglio 2014 – Collegamento esterno

Precedente Verso di te Successivo “Dal ciclo della vita”. L’ultimo volo di Manlio Sgalambro