Manlio Sgalambro, come migliorare la vita con il “peggiorismo”

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Quale eredità filosofica ha lasciato Manlio Sgalambro? Nessuna, e ciò conferma il suo pensiero.
Solo ora che è morto, un mese fa, mi sono accorto di aver letto e annotato tutti i suoi libri. Una ventina, alcuni opuscoli, un poema e un’eccentrica Teoria della canzone. Tanti, se si considera che cominciò a scrivere in tarda età. Ho incrociato Sgalambro un paio di volte in convegni e una volta a cena con Battiato, ma tra misantropi difficilmente nasce un’amicizia, o se nasce è fondata sul reciproco ignorarsi. Di Sgalambro mi attirava la teoria che chiamerei peggiorismo, qualcosa di più e di peggio del pessimismo. È lo spettacolo di un’intelligenza libera da ogni accademia che gioca con nichilismo e cinismo come un prestigiatore fa sparire uomini e cose, non vi dico i valori; si diverte a svelare verità a contrario, come il diavolo, a scoperchiare pentole, a deridere e maledire umanità, vita, Dio. C’è un’impronta siculo-mediterranea acuta in Sgalambro. Forse ha contato molto la nascita a Lentini, patria di Gorgia il sofista, non lontano dal Caos, la contrada di Agrigento dove nacque Pirandello. Sgalambro è una specie di Cioran agli agrumi di Sicilia. Si compiaceva dell’empietà, cui dedicò un bel trattato. A volte il suo gioco si fa scoperto, quasi teatrale, Sgalambro il Maledetto che deflora la verità e capovolge la logica. Gli esempi sono tanti: per i teologi Dio è il Totalmente Altro, per Sgalambro è il Totalmente Questo; per Sant’Agostino la verità abita nell’interiorità, per lui sopravvive all’individuo all’esterno. In principio fu la Parola, no, dice lui, alla fine fu la parola. E così l’identità non è alle origini perché si nasce senza identità. Mancano i valori? Ma no, ne siamo pieni da scoppiare. Suggerisce poi di sostituire l’idea di salvezza con l’idea di perdizione. Il riso non crea relazioni ma allontana dagli altri e l’equilibrio del mondo regge sulla distruzione di specie e ambienti (Schopenhauer al suo cospetto è ottimista). E via continuando col divertissement filosofico, quasi un nichilismo giunto al dessert. Alla fine, una cassata dannerà il mondo.
Vivere è cosa servile, dice Sgalambro, la felicità è legata solo al pensare. Qui intravedi in lui la vena umanistica e una passione di vita, quella di pensare e di scrivere. Ma lui ti fredda subito dicendo che il libro è il letamaio che raccoglie i rifiuti di una civiltà.
Lui stesso dice di far parte degli scrittori dannosi che fanno male solo scrivendo. Alla fine l’apocalisse produce un frutto antico e noto dalle sue parti: il fatalismo della disperazione. Non c’è niente da fare e da dire, solo da maledire. Il filosofo pensa, la storia fa e disfa. In un Dialogo sul comunismo non uscito da Adelphi come quasi tutte le sue opere ma da un editore catanese, De Martinis, Sgalambro teorizzò un comunismo fondato sulla comune disperazione, sull’indignazione di essere al mondo e sul rifiuto della natura che genera con la bellezza privilegi più umilianti e inaccettabili della stessa accumulazione di ricchezze. Un comunismo leopardiano, contro la natura matrigna. Ma un comunismo da solo a Solo, dice Sgalambro parafrasando Plotino; un comunismo per solitari, solipsista, non collettivista, tutt’altro che trepidante per l’avvenire. Tutta la filosofia gli appare come una croce al demerito del mondo, anche se continua a praticarla. Poi Sgalambro si accanisce nel Trattato dell’età con gli estremi della vita, infanzia e vecchiaia, reputandole nefaste. La vita è una malattia infantile e il vecchio è trafficante di ricordi, è cimitero vivente di immagini. Tutti i viventi dovrebbero per lui definirsi piuttosto morenti. Valvola di sfogo in età grave fu per lui la musica leggera, i concerti e le serate con Battiato. Prezioso il suo contributo a canzoni come La cura. L’ho visto ispirato e buffo recitare nel tempio di Segesta. Per Sgalambro la musica leggera è la vena dionisiaca del nostro tempo, le discoteche sono «piccoli nirvana», il rock induce piccole estasi e la canzone «è la più breve opera dello spirito eppure ne possiede tutta la solennità» (e la poesia, di solito più breve?). Perfino «i giovani teppisti» gli appaiono in discoteca come «i nuovi platonici». Per Sgalambro la musica diventa leggera per disperazione; la musica si è fatta mondo, è diventata la realtà. La canzone è vera teoria, e sotto «la pappa del cuore» dei versi melensi affronta il tema del secolo, la morte dello Spirito. La canzone, conclude la sua Teoria, è «un frammento post-socratico»…
Sgalambro usava le lenti scure anche di sera, come l’amico Battiato, non temeva l’aura jettatoria che potevano infondergli ma lo riteneva coerente con le sue idee, come gli esistenzialisti nei bistrot degli anni ’50. Nel suo ultimo libretto di aforismi, Variazioni e capricci morali (Bompiani), spiegò il suo «buio volontario» e la sua «cecità artificiale» come una «condizione perfetta per esercitare la mente». Solo a un siciliano abbagliato e braccato dal sole era possibile immaginare con sollievo La morte del sole – titolo della sua prima opera – o la fuga dal sole tramite le lenti nere. Sgalambro soffriva di teofobia e fotofobia, che paganamente coincidevano. La tradizione per lui «è solo un misero resto, un cumulo di macerie, ma – aggiunge – non conosco punto d’appoggio migliore». L’anima, per Sgalambro, non ci appartiene dalle origini ma si forma alla fine della vita, quando siamo esausti, e l’anima «sono i nostri amori, le tenerezze ricevute, le dolcezze ricambiate». L’anima dura meno di noi, è labile e leggera come una piuma; ma proprio per questa sua evanescenza, dice Sgalambro, va rispettata. A noi, invece, non resta che l’orrore della morte naturale e la speranza che un giorno il suicidio sia l’unica morte. Non risulta che alla fine Sgalambro, ormai quasi novantenne, si sia suicidato. L’empio Sgalambro fu anzi consegnato per l’estremo saluto alla Chiesa Crocifisso dei miracoli di Catania. All’orrore della morte naturale ha aggiunto l’oltraggio dell’addio soprannaturale. È vero che per Sgalambro «la morte non è un fatto privato» ma pubblico, «si muore solo per gli altri», e qui risuona il conterraneo Gentile e la comune sicilianità. Sono gli altri, dunque, a disporre del nostro congedo e della cerimonia d’addio. Ma la vita, a volte, capisce la morte più del pensiero e, insieme, le opposte sorelle – per un mistero sacro o grottesco – si fanno beffe delle filosofie. A quell’intesa beffarda fra vita e morte a spese del pensiero, Sgalambro fece il verso.


Marcello Veneziani, Manlio Sgalambro, come migliorare la vita con il “peggiorismo” in “il Giornale”, 7 aprile 2014 – Collegamento esterno

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