Il cavaliere dell’intelletto

Devo molto a Manlio Sgalambro.
I miei esordi, da lui fortemente voluti e sollecitati, di scrittura. Le prime pubblicazioni, i primi riscontri, i primi importanti riconoscimenti.
Se non avesse creduto in me, e non mi avesse trasmesso questa sua convinzione, forse non avrei mai superato il trauma della pagina bianca.
Lui mi ha rivelato ciò che di me rimuovevo: l’inclinazione a scrivere e, in un secondo momento, a fare poesia. Lui che amava la poesia sino al punto di scoraggiare ogni tentativo di scrivere in versi; lui che, sollecitandomi a scrivere, mi esortava tuttavia a tenermi lontana dalla poesia, come da un traguardo, solo apparentemente facile, in realtà arduo, rischioso, proprio Lui, alle mie prime prove poetiche, mi ha sostenuto, approvando la non voluta, non premeditata direzione verso la poesia che a un certo momento prese la mia scrittura, rafforzando la mia consapevolezza e la determinazione a rispondere a quella che ho sentito come una chiamata.
Su Sgalambro pensatore, filosofo, poeta, autore di testi per canzoni non ho niente da aggiungere a quanto è stato detto e scritto.
Della sua fede incoercibile, indomabile, guerriera nella forza della scrittura –non era per una scrittura salvifica, consolatoria, né tanto meno terapeutica ai mali del vivere – portatrice di dubbi, seminatrice di verità, generatrice di pensiero e di sofferenza, vorrei parlare. Sgalambro ha concepito e vissuto la sua vita come servizio quotidiano, faticoso, duro, stremante, all’atto del pensare e dello scrivere.
Solo nella scrittura l’informe, il caos, il non senso dell’esistenza poteva prendere ordine, giustificazione, senso, ragione.
“Cosa fai, scrivi?” Era il suo modo di salutarmi, ogni volta che ci sentivamo o ci incontravamo. E poi l’invito a fare scrittura di ogni esperienza, di ogni vissuto, a maggior ragione se di dolore e infelicità, e non per trovare consolazione nella pagina scritta, ma perché l’assurdo quotidiano non prendesse il sopravvento, e riducesse tutto in cenere.
Perché il disordine universale si ricomponesse in una forma, e nel rigor mortis della letteratura trovasse un sua ragione d’essere, e una sorta di pacificazione.
Non tutti i pensatori sono grandi scrittori. Sgalambro lo è stato, lo è.
Si possono condividere o meno i contenuti del suo pensiero, ma non si può non restare sedotti, rapiti, conquistati dall’eleganza, dalla singolarità e luminosa classicità della sua prosa.
Molto devo a Sgalambro, anche come maestro di vita. La sua semplicità affabile, conviviale che veniva fuori nell’intimità delle consuetudini amicali, quando si toglieva sorridente quella maschera di cupo cinismo, di solitario distacco che gli avevano cucito addosso e che portava in pubblico, con divertita nochalance, come uno schermo, una difesa, mi mancheranno e non poco.
La sua morte che è giunta improvvisa come sempre giunge improvvisa e ci coglie impreparati la morte di una persona cara, mi sembra una stonatura, un’insolenza, un’irriverenza alla vita che sprigionava dalla sua persona.
Con Lui se ne va una parte di me, di quella matura giovinezza, a cui risale il nostro incontro.


Anna Vasta, Il cavaliere dell’intelletto, 6 marzo 2014

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