Uomini che odiano gli uomini

Difficilmente si potrebbe scrivere un libro di filosofia – che espressione strana è questa: “libro di filosofia” – con questo argomento e questo titolo: Della filantropia. Non credo esista (ma sarò senz’altro smentito). Più semplice o ragionevole è scrivere un testo filosofico sul contrario dell’amore per l’umanità: la misantropia. L’ultimo libretto di Manlio Sgalambro reca proprio questo titolo: Della misantropia (edito come tutti gli altri da Adelphi, venduto ad un prezzo di 10 euro per 128 pagine).
La misantropia è la vera radice del pensiero del filosofo siciliano di Lentini, stessa zona da dove vennero al mondo Empedocle e Gorgia. La misantropia è per l’autore de La morte del sole ciò che l’acqua era per Talete: l’archè. Perché l’uomo pensa, si chiede Sgalambro. E si risponde: perché odia. Cosa? Odia il mondo, odia gli altri ma prima di tutto odia se stesso. Se stesso che è al mondo tra gli altri. Alla base del pensiero di Sgalambro c’è un inconveniente: l’esistenza. L’esistenza è un particolare che Dio poteva anche risparmiarsi. Non a caso è Dio che la crea e la uccide. Tutti noi moriamo per mano di Dio, dice Sgalambro che fa di Dio il più grande assassino dell’umanità, il più grande assassino di tutti i tempi. L’assassino eterno.
Con questo stile si potrebbe andare avanti per tutto l’articolo. Così: «L’idea eterna dell’uomo è il suo stesso cadavere». «Il mondo è esattamente ciò che appare: in sé è ancora peggio». Un articolo lungo sul «pensiero breve». Perché la filosofia di Manlio Sgalambro, che vuole essere un teologo per inquisire Dio, è «breve» ossia aforistica e tende alla penetrazione dell’esistenza per ingiuriarla. Se avete la luna storta o siete giù di morale è bene che non leggiate Sgalambro che non vi raddrizzerà la luna né vi tirerà su di morale. Anche se – va detto – gli scrittori del suo “gruppo”, quelli che possono essere visti come i “nipotini di Leopardi” (per non dire i “nipotini di Nietzsche”), proprio perché ingiuriano l’esistenza e la mostrano per quel che è, hanno anche il potere di consolare e riconciliare. Che un testo come Della misantropia possa aiutare a stare meglio con sé e con gli altri è solo uno dei paradossi di questo libretto che è ricco di ironia. In fondo, un misantropo non dovrebbe neanche scrivere o se scrive non dovrebbe pubblicare perché la pubblicazione è la ricerca del lettore e un misantropo che ricerca l’altro è una coglioneria o una clowneria.
Il “pensare breve” di Sgalambro sembrerebbe a-sistematico. Ma non dovete crederci. Il pensiero che non è sistematico non è pensiero. Anche i pensieri espressi attraverso gli aforismi hanno un loro “sistema” ossia sono riconducibili ad una loro interna intelligenza. L’intelligenza interna di Sgalambro si chiama Arthur Schopenhauer. Non è un segreto e lui stesso lo ha scritto e detto più volte. In un’intervista rilasciata a Marzio Breda per il “Corriere della Sera” disse a mo’ di confessione: «Era il 1943. Gli alleati avevano appena liberato la Sicilia e in qualche modo si ripristinavano le vie di comunicazione con il resto dell’Italia meridionale. In punti insoliti della costa arrivavano barche cariche di tutto: pasta, salumi, stoffe, a volte persino libri. Ero presente a uno di questi sbarchi, e ricordo il passar di mano di due volumi di Schopenhauer, editi da Laterza: Il mondo come volontà e rappresentazione. Li comprai, e fu un incontro decisivo. La gioia che mi prese, nelle settimane che seguirono, fu ineffabile. Leggevo, smozzicavo, cercavo di capire. Fu una vera vacanza dello spirito, anche se il mio non era adeguatamente esercitato, allora».
È strana questa confessione perché se non ricordo male – massì che non ricordo male – la stessa cosa dice uno degli zii di Sgalambro di sopra citati. Anche Nietzsche parlando di Schopenhauer lo indica quasi come una rivelazione e come colui che lo salvò dalla filologia e dal disorientamento intellettuale ed esistenziale. L’unica differenza che c’è tra zio e nipote è che il primo poi si distaccherà da Il mondo come volontà e rappresentazione perché Zarathustra – cioè la Vita – gli parlerà in modo diverso dicendo sempre sì alla vita anche quando si ha una voglia matta di dirle no e maledirla, mentre il secondo gli resterà fedele in modo eccessivo fino a diventarne un epigono siciliano.
Nel libretto c’è un capitoletto intitolato Il discepolo che se non ho capito male – ma non ci giurerei – è rivolto da Sgalambro a Sgalambro: «Nessuno deve entrare in una filosofia se non è disposto, almeno come possibilità, a non lasciarla per tutta la vita. L’incontro con essa deve poter essere l’ultimo. Affinché tutta la faccenda conservi un senso, deve essere possibile che esista una filosofia dopo la quale non ce ne sarà mai più un’altra».
Il pensiero misantropico di Sgalambro ha la sua origine nella Volontà del filosofo de Il mondo che è cieca e irrazionale, ma già il riferimento alla irrazionalità è sviante perché ci ricollega ad una ragion o un logos che per Schopenhauer è solo una rappresentazione e nulla più.
Il mondo è solo volontà che vuole se stessa. Il mondo non è riconducibile ad un logos con il quale, una volta “agganciato”, possiamo illuderci di combinare qualcosa di buono in quel po’ di controllo e dominio che c’è dato dell’essere e delle nostre passioni. No. Il mondo è soltanto ciò che già il compaesano greco di Sgalambro – Gorgia – già vedeva come l’inverso dell’Essere di Parmenide: Non-Essere.
L’uomo è in completa balìa del mondo che sfugge ad ogni regola, ad ogni, logos, ad ogni arché perché tutte queste cose ragionate sono soltanto “umane, troppo umane”. Non c’è soluzione. Non c’è uscita. Non c’è vittoria. Non c’è riscatto. L’uomo ha un’unica chance: odiare, come odia, il mondo e se stesso e con quell’odio provare a scorticare l’Inconveniente – l’esistenza – mostrandone l’assurdità e la cattiveria. Da qui ha origine la filosofia di Sgalambro come misantropia. Un “pensiero odioso” che nasconde in sé – ecco il paradosso – qualcosa di utile. In fondo, la stessa rivelazione che Sgalambro ebbe con Schopenhauer è un modo per trovare una via, un’àncora, una salvezza. Anche se è la salvezza della non-salvezza, anche se è la filosofia che nega la filosofia, qui dentro c’è sempre un’esistenza che soffre e che cerca un qualcosa per provare a soffrire di meno o imparare a soffrire.
Uno degli aforismi Della misantropia dice o recita – recita?, sì, recita anche – così: «Diciamo dunque che “io” sono un unicum. Che non sono un civis, come non sono un socius. Per ritornare a Descartes, io sono certo di essere una cosa che pensa, ma aggiungo che sono anche certo di avere pensieri. Anzi, nel mio caso, che i miei pensieri sono i miei unici averi. Tutto ciò che posseggo». Lo vorrei dire in un altro modo. Così: Manlio Sgalambro non è un professore di filosofia. Non insegna. Non ha cattedra, anche se negli ultimi tempi – in verità – è salito anche lui in cattedra e il suo “pensiero breve” ha preso un po’ il colore grigio della lezioncina.
Ad ogni modo, non è un impiegato del pensiero. E questo me lo rende simpatico. La filosofia è “ragione di vita”, espressione anche questa strana e contraddittoria per eccellenza per uno che crede che dopo Hegel non c’è più Hegel ma Schopenhauer e basta, ma tant’è.
In un’altra intervista, questa volta per “la Repubblica”, il filosofo di Lentini dice: «Il filosofare, oggi, ha perso il suo luogo. Si pretenderebbe che gli siano rimaste le aule universitarie, dalle quali però risuona soltanto uno squittio di topi. E così siamo stati tutti defraudati del potere di interrogare e rispondere, a vantaggio dei cosiddetti professori, che dovrebbero pensare per noi: esserini modesti, che hanno fisionomia da bancari e cercano di far garantire dall’istituzione università la verosimiglianza dei loro ragionamenti.
Questo è il quadro. Che mi fa dire che uno si porta il filosofare con sé . E se è sul palcoscenico o davanti a una determinata platea, allora il filosofare è lì. Non è la cattedra a garantir serietà . Infatti, in una piazza hai a che fare con passioni, emozioni, ragionari che ti investono in prima persona. Dovremmo preferire la gelida e insignificante sala di un convegno, dove si svolgono interventi prestabiliti e monatologici dei professori?». Vorrei quasi ripeterlo: «Non è la cattedra a garantir serietà». Chi è che fu un grande disprezzatore delle filosofie da università? Chi è che scrisse contro la filosofia delle università e contro la stupidità in cattedra? Proprio il filosofo de Il mondo come volontà e rappresentazione. Il quale disse peste e corna di Hegel, “sicario della verità”, anche perché – in verità – alle lezioni di Hegel c’era la fila e alle lezioni di Schopenhauer erano in quattro gatti.
È stata scritta una cosa che trovo molto sensata sui pensatori come Sgalambro e compagni: Cioran, Caraco e forse lo stesso Nietzsche (René Girard pensava senz’altro a lui quando fece questa osservazione che segue). I filosofi che per vivere e sopravvivere ingiuriano l’inconveniente di essere nati hanno qualcosa di infantile. Il fanciullo, capriccioso, offeso si chiude nella sua stanza, che è il suo mondo più sicuro, e si convince di non aver bisogno di nessuno.
Però, dopo un po’ si rende conto di essere terribilmente solo e la solitudine gli diventa insopportabile. Ma è orgoglioso e non può ripresentarsi di là in salotto come se nulla fosse accaduto. Allora, che fa? Per attirare l’attenzione, ma senza capitolare e dire “ho sbagliato”, deve compiere un gesto insolente, qualcosa di eclatante, insomma deve continuare a rompere le scatole: la misantropia – come già detto innanzi – ha bisogno degli altri. I “pensatori brevi”, quelli che scorticano l’esistenza e la fanno sanguinare, sono fatti proprio così: sono un po’ tutti dei fanciulli offesi che persistono e insistono con le loro ragioni chiusi nella loro stanzetta dalla quale non vogliono uscire ma vogliono far sapere di essere lì acquartierati contro il mondo.


Giancristiano Desiderio, Uomini che odiano gli uomini in “Liberal”, 29 giugno 2012

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