Recensione a “La conoscenza del peggio”

Il mondo è un assioma, una di quelle verità che non è necessario portare a conseguenze dimostrative in grado di confermarla ulteriormente. E non solo perché il mondo è qui davanti a noi, tangibile e pensabile come il fenomeno kantiano. Ciò che comunemente si chiama mondo, e, volendo, anche realtà, potrebbe coincidere con la nozione di “pessimum”, al cui esame Manlio Sgalambro ha dedicato alcuni dei suoi ultimi saggi. Con un tono vivace e caustico (elementi che si combinano felicemente nello stile del filosofo siciliano), Sgalambro fa presente sin dalla prima pagina di La conoscenza del peggio la scomoda e imbarazzante verità sulla quale per secoli si arrabatta l’indagine filosofica: “Che non ci sia niente di peggiore del mondo, non si deve dimostrare” (p. 11). Qual è allora lo scopo del saggio? Quale mai potrà essere l’utilità pratica della conoscenza del peggio, del pessimo ridotto a oggetto di scienza, se il mondo, così definito, esclude qualsiasi possibilità di cambiamento? Ci troviamo di fronte all’ennesima riformulazione dell’assunto di base delle filosofie pessimistiche, per le quali il mondo sarebbe l’epifenomeno di ciò che un teologo potrebbe chiamare il male; ma il male, preciserebbe Sgalambro, non è esattamente il pessimum. Se volessimo rivoltare i termini e provare a mutare prospettiva, si potrebbe dire che “il meglio non è altro che la realtà così com’è. Questo – precisa però Sgalambro – fu il pessimismo di Hegel” (p. 20).
Nella conoscenza del peggio, la morte avrà ovviamente un rilievo speciale. Questo viene sottolineato nella Prefazione: “Anzitutto bisogna pervenire a questa convinzione: che non si può usare la parola ‘viventi’ come termine tecnico di una filosofia che si assuma le sue responsabilità (dobbiamo convenire che una filosofia che non ha raggiunto per lo meno questo non s’è mai mossa dal suo punto di partenza), anzi va detto che quella che siamo soliti chiamare ‘filosofia pessimistica’ è la filosofia deiparanekrómenoi, la filosofia dei morenti. Sennonché non ci sono altri viventi che i morenti” (p. 13). I mille modi in cui può ingegnarsi l’uomo di fronte alla morte sono materia nota ai lettori di Pascal, ma c’è anche uno stile che appartiene più propriamente al filosofo pessimista e che tende a esaltarne la teatralità: “Il discorso pessimistico appartiene al genere oratorio, e questo perché presuppone un uditorio che può gridare e agitarsi” (p. 22). C’è pure un certo gusto per la finzione, perché “l’arte del filosofare viene alla luce anche grazie al comportamento mimetico di chi la esercita” (p. 24). Una simulazione d’intenti che potrebbe aver trovato un insospettabile campione in Platone: “Nel Fedone Platone induce a pensare che il meglio e il peggio in qualche modo si appartengano. Come se avesse voluto dire che il meglio che può toccare al mondo è il peggio per cui esso è. O più sommessamente: il pessimismo è la ‘migliore’ filosofia per coloro che abitano il ‘peggiore’ dei mondi” (p. 29).
Altra nozione che contribuisce a determinare il corredo di concetti e teorie che costituiscono il campo d’azione del filosofo pessimista è il dolore. Sgalambro ne definisce diversi tipi, e tra questi il tardo dolore e il dolore astratto. Entrambi hanno a che fare con la sensazione della fine, quella che il “piccolo Morrison”, rocker che Sgalambro ama citare, cantò in una delle più belle canzoni dei Doors: “Il tardo dolore è quello che subentra quando tutto è finito o sta per finire. Esso si annida anzitutto nel pensiero che tiene i fili del rammemorare: mai più si penserà senza mestizia. Il tardo dolore è il dolore di pensare. Il dolore è entrato nel pensiero e mai più se ne andrà?” (p. 33); “Il dolore astratto è quello che resta allorquando l’altro dolore scompare dalla scena ridiventando privato. Questo tipo di dolore, anzi l’unico tipo di dolore che possiamo chiamare tale, è un quid che aleggia sul ‘mondo’ o una specie di viscida nube sparsa su tutto senza che sia in nessun luogo. Non si vede né si tocca, solo lo spirito acustico può udirlo” (p. 54).
La musica, allora. Sgalambro riprende tesi già note e formulate in altri suoi saggi e trova alla musica una collocazione e una dignità che la imparentano strettamente con il mondo: “Le discoteche sono piccoli nirvana dove il solenne fragore del rock fa assaporare il piccolo nulla al figlio di Siddharta. Non essere per un poco è tutto quello che si chiede. Piccoli ‘niente’ di cui la vita dell’individuo odierno ha bisogno per rinascere e vivere un’altra settimana” (p. 44). All’erosività del reale si può resistere, se così si può dire, solo attraverso un’opera di controerosione: “Nella musica ‘industriale’ è immanente l’irreversibilità del tempo. Essa è musica entropica, musica che si distrugge da sé. La musica leggera è la fattispecie dell’autodissolvimento della musica. E tuttavia è l’unica forma di musica che ha senso per tutti. Sul ciglio dell’abisso, Mahler compone Il canto della terra ma canticchia una canzone napoletana” (p. 48).
Se Sgalambro fosse stato un teologo, avrebbe potuto attribuire alla musica un potere salvifico. Per farlo, avrebbe però dovuto riconoscere in pieno il valore dell’intenzionalità che regola i rapporti interpersonali. Si sarebbe dovuta assumere la nozione di “altro” come principio regolatore di qualsiasi dinamica dell’interazionalità. Ma questo non farebbe il gioco del bravo pessimista e poco gioverebbe alla sua conoscenza del peggio: “Io non mi regolo, dice il pessimista, secondo la scienza degli obblighi, e considero la nozione di ‘altro’ una mucillagine inconcludente fatta di ritagli di esseri umani e di rimedi offerti dalle morali correnti e da un ‘sociale’ di bassa lega, una specie di colla con cui legare il pasticcio alla meno peggio. Nessuno di quelli a cui mi sono legato volta per volta è stato per me ‘essere umano’. Bensì esseri che non definirei ‘uomo’ o ‘donna’ ma, ripeto, che mi sembrano meglio definiti dal loro nome e da una specie di alone che fa di ciascuno quel che è” (p. 127).
Se il mondo è quel che è, il pensiero che lo riflette potrebbe avere le sue responsabilità. Sgalambro parla allora di un pensiero intransigente che nel suo continuo esercizio “rivela la sua orrenda natura. Come atto divora continuamente i suoi contenuti. Siamo costretti a pensare, sbalzati continuamente da un pensiero a un altro, in un perpetuo affanno. E sentiamo con pena l’impossibilità di fermarlo, quasi di porvi sosta. Anzi la sosta diventa ancora pensiero, ancora il sentire dentro di sé questo rovello che non si acquieta e la pena che ci infligge e il desiderio finalmente di pace e la segreta aspirazione a non pensare” (p. 171). Ecco che allora non pensare il mondo sarebbe l’atto della vera rinuncia, il vero antidoto contro il pessimum che vi si annida dentro. Ma senza ciò che comunemente chiamiamo mondo, che ne sarebbe della filosofia?


Giuseppe Pulina, La conoscenza del peggio in “Recensioni Filosofiche”, 18 novembre 2007 – Collegamento esterno

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