Manlio Sgalambro

Per Simmel nei paesaggi di Böcklin la rovina è innalzata alla sovratemporalità: nella vita nervosa delle frasi e delle sentenze di Sgalambro, similmente, la catastrofe è oggetto di contemplazione. Tema principale dei suoi scritti (a partire da “La morte del sole”, 1982), il tema par excellence, è quello del collasso termico del sistema solare (finis mundi mediante morte termica): non nel senso di un qualcosa di indefinitamente lontano, da toccare l’uomo talmente poco quanto l’esserci inautentico heideggeriano è toccato dalla morte stessa (per il quale si muore, certamente lo sa, ma intanto non c’è da preoccuparsene). Il fatto che la fine del nostro sistema sia accompagnato dall’acquisizione di una consapevolezza scientifica determina una certa ineludibilità: questa fine del mondo ci è affatto prossima, ne sappiamo abbastanza, per Sgalambro noi stessi siamo suoi contemporanei. Non una parusia, né una società senza classi, ma la distruzione fisica mediante la morte termica dell’intero sistema da noi abitato. Distruzione innanzi la quale è possibile, del resto, stringersi in attesa: come comunità di disperati, di autentici contemporanei di questa fine, in un legame che si può dire comunistico (dove Marx viene letto sempre assieme a Schopenhauer). E dove chiaramente la contemplazione è preferita all’azione, in chiara controtendenza agli orientamenti del presente.
Evidentemente segno caratteristico del tempo attuale, la volontà di praxis (mania dell’esecuzione) è inoltre la condizione di possibilità dell’istituzione della società come idolo: che poi a sua volta sarebbe da venerare, da servire – idolo per il quale il filosofo deve tenere il più alto disinteresse possibile (si veda il volume di Sgalambro del 1994). La filosofia, in caso contrario, diventa semplicemente (o addirittura) materia scolastica, elemento in balia della mediocre ed ecumenica rassicurazione innescata dall’apparato burocratico-universitario, fino a cadere nella tradizionale deiezione della ripetizione che tutto rende innocuo (l’esempio noto del canto notturno che si fa cantilena, anzi canzoncina). La filosofia del resto non può mai accontentarsi dell’essere “segno di apertura di dibattiti”: la filosofia deve lasciare senza domande né obiezioni, deve tutto esaurire (scrive Sgalambro: “la filosofia non insegna, ordina”). Nella continua affermazione della superiorità (basso continuo dell’opera di Sgalambro) della dimensione teoretica su quella pratica è affermata allora anche la durezza della conoscenza: che preferisce la fermezza alla viaticità. Quanto al valore dell’immobilità contemplativa innanzi la catastrofe, essa è, pertanto, espressione di una staticità che, come dice Benn, è la “profondità del saggio”.


Michele Ferretti, Manlio Sgalambro in “Nexmedia”, 13 marzo 2007 – Collegamento esterno

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