Sgalambro: la mia filosofia al servizio dell’arte

Sgalambro la mia filosofia al servizio dell’arte

L’intellettuale siciliano si racconta. «I pensatori devono cercare nuovi terreni di contaminazione»

Continuerà la mia collaborazione per le sceneggiature cinematografiche di Battiato

Manlio Sgalambro è nato a Lentini, la città di Gorgia, nel 1924. Undici anni dopo accompagnerà il padre farmacista a Monaco di Baviera, in pieno furore hitleriano. A ritroso, quel viaggio, nella terra di Mann e Spengler, gli cambierà la vita e lui diventerà il più controverso filosofo italiano. Pubblicherà La morte del sole e il Trattato dell’empietà, che apriranno squarci di nichilismo nel pensiero nazionale. Poi sarà anche autore di testi teatrali e poetici, di libretti per opere musicali. Ma questo avverrà quando inizierà una collaborazione con Franco Battiato, e il filosofo sarà il suo paroliere. Poi, con l’avvento del nuovo secolo, sempre a fianco del musicista di Jonia, scrive le sceneggiature di due film, Perdutoamor e Musikanten. E forse ne scriverà anche un terzo…
— Chi è l’artista? Una cellula del caos odierno che cerca disperatamente di lasciare più tracce possibili; o non è più soddisfatto del sapere che ha originato il suo processo creativo?
«È un cambiamento che bisogna interpretare. Penso che il fenomeno si rafforzerà ancora di più. Vedremo filosofi che non si accontenteranno più delle loro cattedre e dei loro libri e cercheranno un ponte di comunicazione che non sia più quello tracciato dalle vie canoniche ma che possa essere inventato: il rapporto diretto con il pubblico, la lettura dei propri brani. Ma tutto questo perché? Perché‚ in questa era di contaminazione si crea un nuovo modo d’essere. È un fenomeno legato a questo disamore per i campi separati, a differenza delle epoche analitiche che non si sognerebbero mai di confondere il teatro con la filosofia. Il sapere analitico e distinto è deprezzato da questa epoca… che tende a mischiare tutto, come in una sorta di magia oscura che la rende metaforica ed allegorica. Ma la nozione di futuro per l’artista è cambiata: “Morirò io e moriranno anche le mie cose”. Questo sforzo di lasciare più impronte è l’unico modo per catturare la dimensione in cui siamo: “non esisto all’infuori del presente”. La sensazione è quella che se non esisto nel presente non esisterò mai più. Per riassumere: questa corsa verso terreni diversi è un segno di abbandono delle arti e dei saperi distinti».
— Questa era ha provocato un azzeramento, un livellamento tra le arti, dunque l’esigenza di cimentarsi in più campi diventa quasi un obbligo?
«Una volta si scriveva per fame di immortalità. Questa fame di permanere ci porta oggi a questa selezione, non si acquieta più all’interno di una sola disciplina. Ma ci spinge oltre, è lo spirito di questi tempi, è un periodo di confusione delle arti e dei saperi e di confusione di chi li pratica. Così avviene che si fanno romanzi, quadri, musiche, come per esempio nel caso di Savinio. Ma tutto questo non ci dà la sensazione dell’uomo universale del rinascimento, ma è la condizione dell’uomo disperato, il quale vuole che le sue opere restino, l’impronta da lui data rimanga e dunque opera come se volesse abbattere, lottare contro qualcosa (il tempo probabilmente) che distruggerà tutto. Siamo intrisi profondamente di caducità e questa caducità ha invaso ciò che facciamo, comprese le nostre opere».
— E Sgalambro come si pone? Resta un filosofo che dà il suo servizio alla musica, al teatro, al cinema, o si scopre improvvisamente autore di canzoni, testi teatrali, sceneggiature?
«Credo in effetti di continuare a fare quello che facevo prima e cerco di occuparmi di queste cose alla stessa maniera che è tipica del mio modo di vedere. L’unica differenza è quella che invece di sviluppare concetti tento di sviluppare sensazioni. La riflessione mi ha sempre convinto della grande musicalità di cui è pervasa la stessa logica di Hegel, come del resto avveniva al giovane Marx, il quale scrivendo al padre affermava: “Sto studiando la logica hegeliana e vi trovo una qualche melodia rupestre”. Ho una legittimazione di ciò che faccio. Poiché io non sono un accademico, per me il luogo della filosofia è dove sono. Se mi metto a far canzoni il luogo della filosofia è quello, e così se faccio teatro. L’altro tipo di filosofo ha un luogo dove esercitare, tutte le mattine entra in aula e diventa il “professore di filosofia”; molto probabilmente la filosofia lo annoia fuori da quel luogo. Il filosofo nomade al contrario è filosofo in ogni momento».
— Dunque è compito della filosofia quello di plasmare la musica, il cinema, il teatro, o avviene il contrario?
«Il filosofo è condannato ad essere filosofo, non ha un luogo dove entrare e dire: “ora sono filosofo”».
— E come ci si sente a scrivere sceneggiature?
«La sceneggiatura è scrittura pragmatica, che si finalizza nell’immagine, un atto strumentale».
— E se il filosofo “nomade” improvvisamente si stancasse di viaggiare e di spaziare?
«Rimarrebbe il tacere, ma ci vuole molta forza per arrivarci. Non il nobile “silenzio” che presuppone la riflessione, ma proprio il tacere che ha in questo caso il sapore dell’espiazione di una colpa».
— Ritornerà a pubblicare libri?
«La seconda edizione del Nietzsche. Frammenti di una biografia per versi e voce con Bompiani, e l’anno prossimo Ragionamenti pessimistici con Adelphi».


Domenico Trischitta, Sgalambro: la mia filosofia al servizio dell’arte in “Il Tempo”, 26 aprile 2006, p. 17

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