Cencioso e magnificente, il meticciato non spaventa il filosofo

Cencioso e magnificente, il meticciato non spaventa il filosofo

Manlio Sgalambro fa l’apologia estetica del pensiero musulmano. La gastrosofia e la sintesi di Federico II

Catanese, amico e paroliere di Battiato, si considera un siciliano greco ma racconta l’illuminata dominazione araba della sua terra. Il meticciato è il nostro destino e dopotutto Agostino era africano. La saggezza alimentare e il trionfo decorativo

Roma. Ha un nome dal suono pietroso, come la lava che rotola sull’Etna, ma si considera un siciliano greco, Manlio Sgalambro. Tanto che da bambino, durate le gite nella campagna di Lentini, gli capitava spesso di giocare con le ossa degli antichi greci colonizzatori, riesumate per caso fra l’incuria archeologica del tempo. Da grande, poi, avrebbe continuato a giocare con Parmenide e i presocratici. Di arabo perciò ha poco o niente: né l’origine né l’ascendenza. Eppure, quando si tratta di tentare un’apologia dell’Islam per ridimensionare un po’ la crociata anti immigrazione che accomuna oggi alti prelati e politologi laici, Sgalambro è il primo a ricordare i fasti della Sicilia maomettana. «Le immigrazioni qui da noi son sempre state vitali, anche se oggi dal mondo islamico non emigrano tecnici, scienziati e uomini di cultura come nella Sicilia del IX secolo, ma cenciosi fellah, che non hanno nulla da darci». Il meticciato però non lo spaventa: «Credo che sia il destino dell’Europa. Dopotutto, Agostino era un africano: senza di lui il cattolicesimo avrebbe perso la parte migliore del suo essere. Ma la storia macina e trasforma tutto».

Che cosa ci hanno insegnato. In Sicilia la storia confonde popoli e tradizioni. Gli Arabi, che l’hanno conquistata nel 827 e dominata finché non sono arrivati i Normanni nel 1064, hanno insegnato a coltivare l’arancio e il limone, la seta e il cotone. Hanno distrutto il latifondo. Hanno diffuso sofisticate tecniche di irrigazione e forme di calcolo rivoluzionarie. Con loro, l’antica Paleopoli bizantina diventa capitale rigogliosa (300 mila abitanti nel X secolo), degna rivale di Baghdad, ribattezzata Al-Qasr, dalla fortezza sulla Conca d’Oro, nome che poi s’estese alla strada principale di Palermo, il Cassero.
Le chiese e i monasteri che obbedivano alla regola di San Basilio si trasformano in moschee. Ma l’invasore tollera il culto cristiano e le tradizioni ebraiche. Riconosce ai siciliani la condizione giuridica di “sudditi tributari” esentandoli dal servizio militare, non senza dare prova di inusitata crudeltà. Si dice che il generale al-Haedelkum, capo della spedizione dell’emiro aghlabita Ziyadat Allah, diede fuoco alle navi affinché le sue truppe, formate da antichi Siri, Persiani, Berberi, Andalusi, non tornassero più in patria. Un altro capo militare, vinto l’assedio di Selinunte, ordinò addirittura di gettare i superstiti in caldaie di rame per farli bollire. «Fu una conquista», ricorda Sgalambro pur restando fedele alle smentite di Michele Amari. «E della conquista ebbe tutti gli aspetti. Ma fu un’epoca eccitante, diede scosse, sussulti che finirono per essere produttivi. Anche se ci condannarono a una perenne agricoltura».
Eppure, se uno gli domanda qual è il retaggio islamico nell’antropologia del siciliano, il filosofo rilutta a dare una risposta univoca. «La maggiore marcatura è certamente il senso del destino, l’abbandono a Dio, o al cieco caso, alla propria natura o al proprio essere. Ma son cose da prendere in senso costitutivo: io siciliano posso giocare questo mio essere così, nel modo migliore. C’è nel siciliano una nozione di destino energica, attiva, non acquetante. E non dimentichi che abbiamo una grande letteratura, scrittori lucidi come Leonardo Sciascia, con un senso non cupo, non razzolante, di un destino che ognuno di noi possiede». Rifiuta dunque l’inerzia del passato il pensatore di La morte del sole, Trattato dell’età, Trattato dell’empietà, Dell’indifferenza in materia di società e Del pensare breve. Ha altro a cui pensare il filosofo che scrive canzoni per il musicista di Riposto, Franco Battiato (suoi i testi di La cura, Breve invito a rinviare il suicidio, L’ombrello e la macchina da cucire e L’imboscata) e con lui prepara spettacoli teatrali. Sgalambro non è affatto disposto a smarrirsi nel trionfo decorativo della Sicilia islamica e iconoclasta, che pure conserva ancora la sua presa.
Quel trionfo invece lo conosce bene Michelangelo Lupo, l’architetto che dirige al Cairo i restauri della chiesa copta di Santa Maria Moallaqa e del palazzo ottocentesco di Mohammed Ami, dal quale provengono le collezioni del Museo Egizio di Torino. Sulla scorta degli studi di Gabriele Mandel-Kan e di sue personali ricerche sugli antichi erbari, Lupo può ricostruire lo smottamento subìto dalle composizioni arabe, dotate inizialmente di significati esoterici che col passare del tempo finiscono per rappresentare a una forma calligrafica, un puro fregio, e infine sfociano nella raffigurazioni di pesci, fiori, piante e semplici arabeschi. «A Granada – dice Lupo – si conservano paramenti sacri del XV secolo istoriati in caratteri arabi, dove la scritta “Allah è grande” diventa una voluta della tessitura in seta. A Bruxelles, un arazzo fiammingo rappresenta Cristo davanti al gran sacerdote Caifa che poggia i piedi su un tappeto in cui c’è scritto in arabo “Non avrai altro Dio fuori che Allah”. A Palermo, ci sono chiese che hanno le cupole di una moschea, come San Cataldo e San Giovanni degli Eremiti, le cui finestre rivelano la tecnica della “Kammareia” (la luna che passa), un’armatura in gesso in cui s’inseriscono tondi di vetro. L’orlatura della cattedrale ha gli stessi merli a punta della moschea cairota di Ibn-Tulun. Poi c’è la Zisa, dall’arabo “aziza” che vuol dire splendida, la dimora dei re normanni di stile fatimita, in pietra squadrata, archi ogivali, e cupole interne ricoperte di stalattiti».
A Trapani e a Marsala, l’antica Lilibeo che gli arabi ribattezzarono Mars’Allah, il porto di Allah, mai pensando al futuro blasfemo degli inglesi che nell’800 avrebbero dato quel nome a un vino pregiato, gli abitanti che il resto dell’isola chiama ancora “li cartaginisi”, mangiano purpetti di sardi, e cuscusu cu lu pisci, incocciando la semola con un moto rotatorio della mano. E coi dolci di sesamo, il simsin, la pignolata, i pistacchi, le mandorle nei cannoli e la cassata ritrovano il sapore esotico delle spezie e delle raffinatezze d’Oriente. Anche lì, la “gastrosofia” araba, saggezza alimentare secondo la quale ognuno diventa ciò che mangia, rende omaggio al Dio senza volto dell’Islam, in un un tripudio di ghirigori, calligrafici, stucchevoli, ridondanti fino all’astrazione. Passando dalla carne alla vita dello spirito, c’è da aggiungere che la scoperta delle lapidi tombali in arabo a Monte Iato ha permesso a Vittoria Alliata di resuscitare i cosiddetti siciliani della diaspora, ricostruendo le genealogie delle famiglie principesche scampate allo sterminio di Federico II, e ritrovandone a Fes, in Marocco, gli ultimi loro discendenti.

L’effetto sulla nostra psiche. Che peso ha tutto questo sulla nostra psiche? «Come uomo» risponde il filosofo Sgalambro «sono poco afflitto dal complesso della causa. La storia è come l’aria che respiro, come la luce che guardo. Metto in conto l’aria o la luce quando compio un’azione che abbia senso, come scrivere o pensare? No, me ne libero in ciò che faccio. E così mi libero delle cause che ho alle spalle, perché rientro in quello che faccio». Ma di che cos’è fatta quest’aria? «L’aria di cui mi libero è leggera, gioiosa, non cupa. Da noi è cupo il tramonto che porta al ricordo. Ma l’aria siciliana ha un ritmo energico. Non la vedo come una prugna secca la Sicilia. Ne vedo un’anima ardita. Sono una freccia lanciata. Bisogna vedere non solo la stasi, ma il rigo in cui si può procedere». Anche se per Sgalambro non c’è più una meta collettiva, perché nessuno ci crede più. «L’opera che ho scritto con Battiato su Federico II, Il cavaliere dell’intelletto, iniziava con un senso del naufragio, con l’isola pericolante, l’anima talattica della Sicilia, che acqueta tutta la sua potenza solo nel momento dell’arte. In questo senso c’è qualcosa di più circoscrivibile nella letteratura italiana, e non starò a citare Verga, Pirandello, Sciascia. L’anima della Sicilia può vedere la mafia, il contadinume nella sua situazione trasognata, ma in fondo resta un’anima narrativa, affabulatoria, che parla di continuo di se stessa anche allo stadio orale, come antica cultura che si tramandava nelle piazze».

Il mistero di una civiltà. Resta dunque intatto il mistero di una civiltà che è riuscita ad assorbire il diverso da sé, l’infedele, il musulmano sino a produrne frutti lussurreggianti. «Per capire com’è successo – dice Sgalambro – bisogna ritornare alla sintesi di Federico II di Svevia, che riuscì a fondere le due anime, come un abile giocoliere che le tiene in mano e lascia cadere l’una e lancia in aria l’altra. L’imperatore giocava con la sua provenienza cristiana e il suo impatto col mondo arabo: chiamava alla sua corte esimi esponenti della religione islamica. Ma univa le due culture dall’esterno, cercando di congiungerle. Farne un ricamo era più importante che sognare di un’unica anima in cui le due trepidassero unite. Con lui viene la consapevolezza di una grande cultura islamica e la consapevolezza che con essa si poteva entrare nell’anima occidentale, come si fa con un ospite di riguardo, invitandolo ad accomodarsi. Federico II fu il grande ospite di questa cultura della sua magnificenza, oltre che delle sue tecniche».
E la magnificenza per il filosofo Sgalambro sta tutta nel pensiero islamico, «questa meraviglia che poi si sveglia e dà pasto al pensare europeo». «La grande teologia dei secoli XI-XII-XIII si nutre del travaso nel pensiero islamico, un pensiero quasi monocorde nel suo monoteismo rigoroso. è una tematica bella, ricca smagliante. Noi occidentali apprendemmo un pensare che potesse essere anche bello: ciò che leggevamo in Averroè e in Avicenna, i loro pensatori, conquistati dall’idea unica dell’unico Dio, in cui per loro si sfaccettava tutto il resto. La ricchezza di San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiæ richiama al contrario la ricchezza prosastica dei filosofi arabi i quali ci segnalano che pensare possa essere bello». Ma la struttura di questo pensare islamico, non è l’abbandono a una forma di misticismo che svalorizza la ragione, e la stessa conoscenza filosofica? «Se dovessi considerare il pensiero arabo – risponde Sgalambro – ammetterei che agisce in me il suo lato estetico: il modo in cui esso si può contemplare come un monumento, come una moschea. Considero infatti i grandi edifici del pensiero arabo belli, da un punto di vista estetico. Non veri né falsi, come cose che sfuggono ai nostri concetti di vero e di falso, ma si racchiudono in se stessi, nel modo in cui sono stati concepiti». Una bella decorazione dunque? «Una soluzione architettonica, di cui ammiriamo la bellezza della costruzione. Per noi greci, invece, è il contrario: pensare significa calarci fuori da noi e rientrare dentro per spremere il pensiero. Per questo ogni uomo di pensiero non può che essere greco. Il pensiero islamico si può solo contemplare, esce fuori da sé e resta al di fuori dalla lotta per il vero e per il falso. E io lo considero un pensiero che si può contemplare esteticamente, come conciliato con noi dal fatto che non siamo più spronati a vedere in esso verità o falsità, ma solo la bellezza».


Cencioso e magnificente, il meticciato non spaventa il filosofo in “Il Foglio”, 30 settembre 2000

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