La vecchiaia come età dell’amore

In questi giorni Indro Montanelli ha sollevato il problema della morte, che in realtà non è il problema della morte, ma il problema della vecchiaia visualizzata come anticamera della morte. Questo sguardo “anticipante” non consente di cogliere il vero senso della vecchiaia, ultima conquista della modernità, dove il tempo vissuto si dissolve e al suo posto compare l’età. Ma qui non ci confondiamo: non ci sono tre, cinque, sette, dieci età, dall’infanzia alla vecchiaia, se non per quella scienza inferiore che è la psicologia, la quale nel tentativo disperato e impossibile di raggiungere la scientificità degli altri saperi, non trova mossa migliore che quantificare in età la vita dell’uomo. E allora solo adottando il punto di vista della psicologia, che è il più basso che si possa avere sull’uomo e il suo destino, Indro Montanelli può desiderare di morire “quando” e “come” vuole perché, dopo che le età si sono spartite la vita come un bottino, all’ultima non resta in mano niente. Ma se abbandoniamo il punto di vista della psicologia e seguiamo Manlio Sgalambro nel suo Trattato dell’età (Adelphi, pagg. 130, lire 14.000) scopriamo che né il fanciullo, né il giovane, né l’adulto hanno età perché in essi la vita scorre come il corso di un fiume, solo il vecchio ha età, perché nel vecchio finisce il tempo intimo, il tempo vissuto, il tempo che scorre, e al suo posto entra potente il tempo esterno, il tempo del mondo, il tempo della materia, il tempo che non passa, quindi il tempo come incubo, il tempo che si scontra con l’individuo come tempo non suo, che scolpisce sulla faccia del vecchio il suo tratto “metafisico”, non “psicologico”. Solo il vecchio ha età, perché in lui l’età non si evolve. Fin quando ha “età”, come la intende la psicologia, l’uomo è un fanciullo, un bisogno dell’adulto. Con la vecchiaia “l’età non ha età” (in senso psicologico) perché non si evolve. E quindi la vecchiaia non è l’ultima tappa della vita, ma la prima e l’unica in cui si esce dal tempo proprio, dal tempo vissuto, per essere abbracciati dal tempo esterno, quello dell’orologio, l’unico serio, quello del mondo che procede con regole sue e non più nostre, quello del corpo cadenzato sui ritmi della materia. Questo è il momento culminante della vita che non è più “slancio”, ma “apice”, o, come dice Sgalambro: “climax”. “Il climax si fa pagare. Non è cosa da uccellini implumi. Lo paghi con la vecchiezza. Sarebbe altrimenti un élan, un sospiro, e invece è nientemeno che il momento del compimento”. È questa la figura del vecchio che Sgalambro vuole indagare. Non il vecchio che aspetta la morte o decide la sua morte e neppure il vecchio sciapo, inoffensivo e babbeo, ma il vecchio “come essere terribile e noumenico” portavoce del “tempo del mondo”, non del “tempo proprio”, del “tempo perduto”, del tempo che non è più. Come stato supremo della conoscenza, non più inquinata dal desiderio, la vecchiezza, scrive Sgalambro: “È il tempo della Grande Valutazione. Non porta né le rondini né la fioritura degli anemoni. Ma grandi Sì e grandi No”. A differenza infatti della fanciullezza, dell’adolescenza e della maturità che sono in balia della vita, la vecchiaia è in sé come ciò che è compiuto e perciò perfetto. In essa ci si congeda dal proprio tempo che è il tempo dell’Io, il tempo del desiderio, per incontrare il tempo esterno, quello del mondo. In un certo senso la vecchiaia viene dal di fuori, e sopraggiungendo opera quella scissione profonda tra tempo e individuo, per cui non si può più dire che l’esistenza è tempo, ma piuttosto che l’esistenza subisce il tempo: un tempo fermo, un tempo solido e opaco, un tempo che non passa mai, in cui si riflette il momento statico del mondo. Finché non passa da quelle parti Amore. Qui Sgalambro non cerca ripari. Non si rifugia nella “giovinezza interiore” che a suo parere è un luogo notoriamente malfamato, ma si rivolge alla “sacra carne del vecchio” che contrappone a quella del giovane, mera res extensa buona per la riproduzione. L’eros scaturisce da ciò che sei, amico, non dalle fattezze del tuo corpo, scaturisce dalla tua età che, non avendo più scopi, può capire finalmente cos’è l’amore fine a se stesso. Una sessualità totale succede alla sessualità genitale. Non più la rebellio membri genitalis, il vile amore notturno, il fugace abbraccio, ma il trasalimento che, come un’onda inesorabile che ritorna instancabile sulla stessa riva, è un tributo all’incarnazione senza riproduzione, perché: “La specie non è niente, alcuni uomini sono tutto”. Questi favori, che anche a parere di Orazio: “la natura negò ai giovani”, consentono all’amore di raggiungere a sua volta il proprio apice che non è nella riproduzione a cui è legato l’animale di ogni specie, e neppure nel piacere troppo omogeneo e compatto nella giovinezza della carne. L’apice dell’amore è nella conoscenza del tempo, non del tempo passato che si avvinghia a quello futuro, ma di quel tempo dei tempi dove l’amore e la morte, che in ogni orgasmo tutti sentono in qualche modo imparentati, trovano il loro modo ineffabile di abbracciarsi finalmente senza maschere e fraintendimenti. Qui si annida il segreto dell’età, dove lo spirito della vita guizza dentro come una folgore, lasciando muta la giovinezza, incapace di capire.


Umberto Galimberti, La vecchiaia come età dell’amore in “la Repubblica”, 8 dicembre 1999 – Collegamento esterno

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