Sgalambro. Il filosofo è uno spione

Sgalambro

I solitari. Incontro con il pensatore catanese divenuto «un caso» a 58 anni

Non ha titoli, non ha mai dato un esame universitario, non cerca il contatto con il pubblico
E ora la collaborazione con Battiato: due opere liriche e un cd di canzoni
Il primo successo con La morte del sole mandato quasi per gioco all’Adelphi
Lunga maturazione fra gli agrumi con Kant e Nietzsche

Non ha nessun titolo, non ha lauree per i biglietti da visita, non ha mai dato neppure un esame universitario. Ma i suoi libri escono dal più sofisticato editore italiano, il suo pensiero corre, deflagrante e corrosivo nel pessimismo radicale che lo anima, crea allarme nei benpensanti, dibattito in tutti. E lui se ne sta nascosto a Catania, lontano da simposi, tavole rotonde, corridoi editoriali, terrazze, salotti. Manlio Sgalambro non è solo il più raro, quasi unico esemplare di filosofo non scolastico in Italia. è anche il più singolare caso di talento che non ha mai cercato il contatto con il pubblico. Il suo primo libro è uscito, per un gioco fortuito della sorte, quando aveva 58 anni. E, per un altro gioco, è diventato autore di canzoni, con il conterraneo e altrettanto solitario Franco Battiato, quando ne aveva quasi 70.
Oggi, a 72 anni, Sgalambro ha alle spalle sette libri di pensiero, due opere liriche e un compact disc. Ma continua a rimanere qui, acquattato fra i volumi di filosofia che gremiscono il suo piccolo studio, su due altissime pareti. Sapevamo che ci avremmo trovato Hegel, Schopenhauer, Husserl, i classici, in edizioni tedesche, che lui cita con tanta disinvoltura. Non pensavamo di trovarci, fra una libreria e l’altra, il computer. L’uomo del logos, nella sua solitudine, si tiene in contatto col mondo, attraverso i fili della elettronica. E non rifiuta il mezzo tecnico neppure per elaborare il pensiero. Gli piace «la implacabile fluidità» dello strumento, di cui si è rapidamente impadronito. «I vili paventano le macchine – dice –; paventano un pensiero che le segua. Io credo ci sia poco da paventare e molto da usare». Sgalambro appartiene al gruppo antropologico dei siciliani alti, a quello dei settantenni scattanti. Il suo accento è isolano, il suo linguaggio riassume secoli di conoscenza.
Anche se non è professore di nulla, Sgalambro ha un blasone geografico, quasi naturale. è nato e si è formato a Lentini, la patria di Gorgia. Ma non sbandiera questa affinità con il grande sofista, che egli stesso ha scoperto tardi. In realtà Lentini per lui significa altro, anche culturalmente. Significa gli aranceti, che davano un frutto molto cercato nell’Europa del Nord e stabilivano un rapporto con il mondo tedesco. La via del pensiero, per il futuro filosofo, passa per la via delle arance. «Mio padre era farmacista, produceva un po’ di agrumi nei suoi giardini e si prendeva le sue vacanze in Germania, portandomi con sé. Io passeggiavo da bambino a Monaco, con mio papà, e sapevo che lì abitava Thomas Mann». I bei giovani di Lentini tornavano con la ragazza di Vienna, camminavano con lei per le strade del paese. Sgalambro, dalla Germania, si sarebbe fatto arrivare i libri di Kant.
Dopo il liceo classico a Catania il figlio del farmacista di Lentini aveva anche provato l’Università, scoprendo assai presto che non era quella la sua strada. «Io mi ero proposto due possibilità: o diventare commissario di polizia, o tentare la carriera diplomatica». E si era iscritto a giurisprudenza: «Frequentavo male e seguivo peggio». I suoi interessi, già allora, andavano in direzione filosofica; ma nemmeno la Facoltà di filosofia lo attraeva molto. «La filosofia, in Università, veniva vista come disciplina da insegnare; e quelle lezioni, al dilettante che ero io, ripugnavano: non venivano da esigenze di pensiero». Il padre, che doveva avere fibra di santo, comprò una casa a Catania e ci si trasferì con la famiglia, sperando che quel figlio si laureasse. Inutile. «Giurisprudenza io la continuavo per contentare i miei vecchi, ma non ho dato neppure una materia».
Ancora oggi Sgalambro è riconoscente ai suoi per la pazienza mostrata in quegli anni; e anche dopo, a lungo. «Io non ho provato il contrasto con i genitori, tipico del nullafacente. Io ho provato la serenità di una famiglia che mi lasciava crescere, anche se ci voleva chissà quanto tempo perché io crescessi». Sarebbe rimasto in casa fino al matrimonio, a 39 anni. «Io non avevo vergogna che i miei mi mantenessero. Questo poteva avvenire perché mio papà aveva messo da parte qualcosa, con la farmacia; qualcos’altro si poteva guadagnare con gli agrumi; e ci accontentavamo di poco: c’era una vita più semplice. Mi lasciavano maturare».
E nessuno sapeva come sarebbe maturato. In compenso quel ragazzo che non dava esami spendeva tanti soldi in libri. «Me li procuravo attraverso i cataloghi delle librerie di occasione, che mi arrivavano anche dalla Germania. Molti cataloghi tedeschi portavano ancora libri dell’Ottocento nell’edizione originale». Ricorda ancora l’esclamazione di sua madre: «Quanti libri, Manlio, che comperi!».
Il primo, che determinò la sua vita, fu lo Schopenhauer, arrivato fortunosamente a Catania durante la guerra, quando lui aveva appena finito il liceo. «Non c’era più il ferry-boat. La Sicilia era raccordata solo con barche, che trasportavano merci di ogni genere, da vendere dove si poteva. In un negozio di dischi ho trovato Il mondo come volontà e rappresentazione nei due volumi Laterza. Costava 27 lire, ricordo bene la cifra». E poco dopo riuscì a mettere le mani sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel, edizione Nuova Italia, 1933.
«Ne avevano stampato 1500 copie. A me mandarono quella con il numero 330. Ed erano passati più di dieci anni. Questo significa che la filosofia non aveva dibattito fuori dagli insegnanti. Si riproduceva per essere insegnata e si insegnava per essere riprodotta».
No, quel modo di praticare il pensiero al conterraneo di Gorgia non poteva andare giù. Ma non è che l’eterno studente senza esami facesse proprio nulla. Lui, che non si sarebbe laureato mai, cominciò a guadagnare scrivendo tesi di laurea per gli altri, in storia, in pedagogia, in filosofia. Faceva supplenze, come insegnante alla macchia. Seguiva anche, senza troppo entusiasmo, i lavori dell’aranceto, «uggiato di dovermene occupare». Soprattutto studiava: «Otto ore o più ogni giorno». Quello, era il suo lavoro: gratuito, duro; visto dall’esterno, assolutamente inutile; per lui, necessario. E scriveva.
Perché scriveva, Sgalambro? Non nella speranza di pubblicare, chiarisce subito. «Scrivevo perché pensare non è un atto aereo, ma deve prendere corpo, farsi materia greve: e questa materia è la scrittura. Altrimenti il pensiero è divagazione».
E per chi scriveva? «Io scrivevo per trovare un terreno dove potessi dare quel contributo che sentivo in qualche parte di me agitarsi. Il per chi diventava accessorio». Qualche saggio su rivistine locali, una breve collaborazione a “Tempo Presente”, che aveva scoperto in lui «il primo esempio di esistenzialismo negativo in Italia». Si interruppe di brutto dopo uno scontro con Chiaromonte, che gli aveva rifiutato uno scritto su Zdanov.
Come sia riuscito, questo personaggio fuori da tutte le righe, a diventare uno scrittore di filosofia per il pubblico, è un mistero che lui stesso stenta a spiegarsi. La sua era una pallina sulla roulette, ha infilato quasi per sbaglio il numero su cui aveva distrattamente puntato. A 55 anni Sgalambro mandò il suo primo libro, La morte del sole, alla Adelphi, con un biglietto di due righe senza alcun nome di destinatario. «Spettabile Adelphi…». «E lì è rimasto due anni. Ma siccome io sono fatto in questo modo, non ho chiesto niente. Poi è arrivata una telefonata a mia moglie. Mi chiedevano di andare a Milano, per prendere contatto con l’editore». Era successo che il dattiloscritto, dopo un primo parere negativo, era finito sul tavolo di Roberto Calasso. E il direttore della casa che pubblica tutto Nietzsche ne era stato entusiasta.
«Avevo scelto il momento giusto, e un editore che poteva fare esperimenti. Bastava che io avessi tentato di pubblicare prima, o altrove, e sarei finito. Questo dimostra che un libro può anche non uscire, per mia serie di circostanze. La caducità avrebbe potuto afferrare il mio libro: ma non lo afferrò. Ed è rimasto».
Era un saggio ispido e lampeggiante, denso di pensieri frastagliati e insieme coerenti, ispirati a un pessimismo radicale; con un linguaggio petroso, da autentico scrittore. Purtroppo quello stile, che affascinò subito i lettori, secondo l’autore rischia di essere la sua condanna. «Si fermano tutti allo stile. Io ho scelto una scrittura impressionistica perché mi dà fastidio la filosofia terminologica di tipo heideggeriano. Ma i miei frammenti non escludevano un sistema. “Bello”, mi dicono. Come le belle donne che sono considerate cretine. Io vorrei che mi dicessero “vero”. Se uno non avesse questa ingenua fiducia nella possibilità del vero si metterebbe a fare il capraio, non il filosofo. Sono stato letto male».
I sette libri pubblicati non gli hanno ancora aperto il mondo della accademia, e lui se ne sta tranquillamente fuori. «Io sono il filosofo, o sedicente tale, meno studiato. Si fa solo qualche tesi di laurea su me: mi affidano ai ragazzini». Contatti con la cultura? «Episodici».
Ma dove prende, questo pensatore, la linfa per il suo pensiero? Non vede il mondo? «Sì che lo vedo. Io passo le mie serate nei bar, nei pub. Vedo questi ragazzi, li perseguito col mio sguardo, sono uno spione. Non è un caso che volessi fare il commissario di polizia. Se leggessi solo libri sarei fottuto».
E, con compiacimento, ricorda le sue esperienze con Battiato: conosciuto per combinazione, diventato suo importante interlocutore. Dovevano fare insieme un’opera lirica, ne sono nate due. Più un compact disc con i suoi testi. L’ombrello e la macchina da cucire, e un altro in arrivo a ottobre. Sgalambro, che non si è mai mosso per incontrare filosofi, si muove per il pubblico dei concerti, che grida «Manlio! Manlio!» alla fine dei suoi interventi. «Qual è il luogo della filosofia? La filosofia non ha luogo. è il luogo dove qualcuno parla in suo nome. Se si parla su una piazza è una piazza. Se si parla in un bar, è il bar. O il palcoscenico. Non è l’Università».
Può essere anche la famiglia? Manlio Sgalambro, nel libro La consolazione, ha scritto parole terribili contro il matrimonio. Ma nella vita si presenta assai diverso, con la sua fedeltà domestica, i cinque figli, a cui si sente legatissimo. «Non vedo contraddizione fra l’essere sposato e scrivere quello che ho scritto. Io ho ereditato dal cristianesimo lo spirito dell’incarnazione. L’idea si deve incarnare, farsi corpo; chi resiste nella idea disincarnata prima o poi la paga in senso conoscitivo, in misconoscenza. Parla di una vita che non è la vita. Io sono vissuto con i miei ragazzi in piena allegria, non mi sono sentito mutilato nell’atto del pensare».
E lui vive bene, con Manlio Sgalambro? Il filosofo non ha dubbi. «Sì, ci vivo bene; ne conosco le pieghe. Quando pensa, costui lo fa ancora con molto rigore e pulizia. Il mio sogno, a 72 anni, è sistemare quello che ho fatto finora». Ma davvero lo vorrebbe, lui pensatore così lontano dai sistemi? No che non lo vorrebbe. «è un sogno aberrante. Sognare di fare il sistema è veramente una miserabile fine». Il soffio di Gorgia arriva da lontano, sul filosofo di fine millennio.


Giorgio Calcagno, Sgalambro. Il filosofo è uno spione in “La Stampa”, 28 agosto 1996

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