Risposte

Joseph De Maistre
Joseph De Maistre

Meditazioni provinciali

«And what is Cosmos, Mr. Sanderson?
What is the meaning of the world?»
Virginia Woolf, The Captain’s Death bed and other essays

Ira. Senza l’ira la riflessione perde mordente, la sua stessa ragione. Rimane solo un’abilità. Un serpente diventato verme. Si raccomanda, suadenti, l’assenza di emozioni senza le quali, si dice, si penserebbe meglio. Mentre è sotto l’impeto dell’ira che il pensiero ha la meglio su quei limiti che il celebre Kant gli prescrisse per sedarlo. È come se esso si tonificasse al suo contatto e trasportato sulle ali della tempesta arrivasse ovunque.

Polizia e teologia. Che l’illuminista Le Sartine, l’amico di Diderot, diventi luogotenente generale di polizia, appartiene alla morfologia dell’epoca: ritaglia una forma del tempo e l’incide come un orafo. L’idea di polizia desublima quella di Dio e la realizza portandola sottobraccio fuori dalle chiese. È ciò che poi si chiamò panteismo moderno. Dio non è più che pace, ordine e sicurezza. La «candida» teologia dell’Abbé de Saint-Pierre – «Dio è colui che punisce i cattivi e premia i buoni» non è in fondo la teologia del flic?

Morte per coltello. Il bagliore della sua lama è l’essenza del coltello. Davanti a Dio esso non è altro. Se c’è una idea del coltello nel mondo intelligibile essa è il balenio che scaglia contro quand’è colpito dalla luce. La fiammata che assale gli altrui occhi minacciosa. Non è nemmeno vero che immerso nel corpo di un vivente sia la lama a dargli la morte. È la luce, invece, che penetrando in lui lo trasforma in cadavere. La troppa luce, condensata in un guizzo, gli strappa la vita come una tenaglia e la butta ai cani.

Esperienza di un intelletto traviato. Il settimo colloquio delle Soirées de Saint-Pétersbourg cosa ha da invidiare al secondo libro del Mondo come volontà e rappresentazione o, ancora meglio, alla Volontà della natura? Si aggiunga che De Maistre non ha tempo per giocare alla metafisica: egli sa. In questa pagina v’è contenuto il fulcro del Mondo con in più il giusto modo di sbrogliarsela: «Nel vasto campo della natura vivente regna una violenza manifesta, una specie di rabbia decretata, che arma tutti gli esseri in mutua funera; appena oltrepassate le soglie del regno dell’insensibile vi trovate di fronte al decreto della morte violenta scritto sui confini stessi della vita. Già nel regno vegetale si comincia ad avvertire la presenza di questa legge: dall’immensa catalpa all’umile graminacea, quante sono le piante che muoiono e quante quelle che sono uccise? Ma appena entrate nel regno animale, la legge assume di colpo una spaventosa evidenza. Una forza, nello stesso tempo nascosta e palpabile, si rivela continuamente occupata a rendere forzatamente vulnerabile il principio della vita… a mettere allo scoperto il principio della vita mediante mezzi violenti… il massacro permanente è previsto e ordinato nel gran tutto». Come nelle grandi Summæ, trepidanti, attendiamo, ma invano, che si aggiunga: et hoc dicitur Deum.

O adolescenza! Potere restare a lungo immaturi, ancora per lungo tempo adolescenti! Ciò fu possibile un tempo quando non si voleva, quasi, che si crescesse. Si crebbe, così, senza premura, senza che nessuno spingesse sgarbatamente nel mondo degli adulti, come oggi. Chi diventa adulto presto, resta per sempre bambino.

La verità non educa. Se ci sono conoscenze assolutamente vere, esse non riguardano chi attende alla propria formazione come se si abbigliasse, ma chi bada, senza fronzoli, alla verità sola. Per quei signori infatti bisogna fischiargli forte nelle orecchie che non è detto che la verità educhi. Sappiamo di uomini che prendono a pedate l’ospite importuno, o che sputano in faccia al discepolo prediletto. Di certo la verità li possiede. C’è chi di fronte a un banchiere scoppia in risate frenetiche (o che al cospetto di «sublimi» pensieri invoca il dio Crepitus). Certamente anche lui è posseduto ineducatamente dalla verità.

Stupidità della ragione. Che filosofie e metafisiche abbiano dovuto fare nel passato da sostegno agli uomini, aiutarli a vivere, ciò è vero persino di quelle che per la loro più completa emancipazione hanno fatto tutto il possibile; ciò è vero sinanco dell’illuminismo. Complesse e maestose costruzioni del pensiero si possono smentire con niente, metterne a nudo il ruolo stregonesco: esorcizzare gli spiriti maligni. Ma ciò proverebbe? Attraverso tutto questo, infatti, l’individuo acquista autosufficienza, maturità, ragione, si emancipa, ed in ultimo va a finire proprio dove si voleva impedire che finisse: vedere in faccia la vita e fuggirsene spaventato.

Spontaneità. Bisogna cercare di capire la radice della stima che si ha per la spontaneità. Certamente in Kant, in cui si affaccia in maniera tematica, il concetto di essa deve ricollegarsi alla «natura» nel senso roussoiano di contro alla «civiltà» intesa come artificio. «Spontaneo» sarebbe dunque tutto ciò che si è «per natura» – ossia, ci si perdoni il bisticcio, spontaneamente – di contro a ciò che si manterrebbe in qualche modo esterno all’individuo. Ma nella spontaneità non è tutto oro quel che luce o, come dietro le quinte, dove della «spontaneità» dell’attore sul palcoscenico se ne sa di più, proprio perché essa finisce di fatto col trascinare con sé tutto ciò con cui l’individuo viene a contatto, spontaneo diventa tutto, ossia tutto ciò che si è trasferito, armi e bagagli, nell’individuo, e lì si trova ormai a casa propria.
Che l’individuo abbia fatto suoi i contenuti più disparati, i quali vi si ritrovano ormai ben fusi, indica che la spontaneità è in gran parte spazzatura; dove, ciò che l’individuo ha incorporato, ricompare al livello in cui è tutt’uno col suo caro io.
Ciò non significa che si vorrebbe l’individuo senza ciò per cui egli lo è. Anche se disperatamente lo si vorrebbe.


Manlio Sgalambro, Risposte in “La Sicilia”, 5 marzo 1988, p. 3

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