Cancàn

Michel Eyquem, signore di Montaigne
Michel Eyquem, signore di Montaigne

Meditazioni provinciali

«Ci si diverte, si applaude
Per tutta la durata dell’opera
Poi cala la tela
E qualcuno viene a dirvi:
Domani nuovi annunci,
Oggi nulla più da vedere
Addio, amici, addio, buona sera
Spegniamo le candele»
J. Offenbach, Belle Lurette (1880)

Teste ben fatte. L’ammirevole Montaigne ha fatto un uso di se stesso che tutte le teste ben fatte – per le quali, si ricordi, il dubbio è un buon guanciale – hanno amato. I piccoli Montaigne oggi non si contano. La «raison faible» ha seguito. L’impotenza che Montaigne, giulivo e festante, fa pesare sull’individuo, questi l’accoglie di buon grado. Il dubbio circonda come un profumato roseto la zona occupata dall’uomo, affinché niente penetri dell’altra parte né egli vi sconfini. Allora che si aspetta? Dubitiamo, dubitiamo di tutto e ogni cosa ci sarà restituita al doppio (questo ce lo insegnò Descartes).

Scoperte. Nietzsche ha individuato una specie rara di uomini – questo scovatore di tartufi –: i seguaci della conoscenza. Tuttavia egli non arriva fino a proporre un superuomo gnoseologico. Uno che stia 6000 metri al di sopra dell’umano, nella conoscenza.

Il profumo del nichilismo. Il nichilismo è l’ultima carta dell’umanismo perdente (nonché l’attuale look dell’ottimismo). Davanti al troppo senso del «mondo» – che non ha invece alcun senso per esso – l’umanismo avanza il suo «nulla» che riapre tutte le possibilità con una chiave dorata. Qui s’annida «l’azione», levatrice di ogni «senso» umano. Ma il mondo ha il suo che non dipende dall’uomo e da cui questi dipende.

Rettifiche. Nell’unio physica si esautora l’unio mystica. L’unio physica è la dispersione ai quattro venti del cadavere, mediante la divina putrefazione. (Non la morte, come sostengono gli ingenui, ma il cadavere è l’inizio della riflessione).

Dedicato a chi comanda. Perché lo sconfinato rispetto, l’ammirazione per chi comanda? L’ambizione di comandare a propria volta? Ciò che scrive Comte (che pure passa per autoritario) «ogni partecipazione al comando è radicalmente degradante» la condividiamo pienamente. Noi non abbiamo stima per chi comanda. Anzi lasciamo comandare proprio quelli per cui non abbiamo stima.

I veri uomini. Poiché gli animali sono liberi dell’autoinganno – di cui invece risultano schiavi gli uomini – che porta a cercare dietro il mondo un altro mondo, e, nella loro muta devozione a questo sono più mansueti degli uomini, sono essi i veri uomini.

Tempo buono. Come quando, scomparse le nubi, il cielo è più terso e se ne vede la trama cristallina, o, se è notte, questa appare, sgombrato il campo, se è possibile più buia, così quando le grandi distrazioni: fame, miseria sociale e umana, duro lavoro, eccetera, saranno finiti, tutto diverrà più chiaro, e il buio ancora più buio.

Giobbe. Per il «sommo bene politico», secondo la venerabile terminologia del neokantiano Cohen, si veda questo splendido passo tratto da La fondazione kantiana dell’etica. Oggi l’infelice – dice Cohen – non chiede «se l’uomo in generale abbia più sole che pioggia, bensì se un determinato uomo soffra più del suo vicino, e se nella giustizia distributiva del piacere il rapporto calcolabile consista nel fatto che una maggiore quantità di piacere goduta da un membro del regno dei costumi faccia del minore piacere goduto dall’altro un destino logico». Qui il nemico giurato di materialismo e pessimismo unisce il «grigio su grigio» dell’uno al «nero su nero» dell’altro come meglio non si potrebbe.

Tentazione. Si sarebbe tentati di accostare il «tempo perduto» di Proust alla massima di Benjamin Franklin: «il tempo perduto non si lascia mai riprendere».

Romanzo e filosofia. Il romanzo moderno nasce, non più effimero episodio, ma come età, allorquando si spegne l’eco delle grandi filosofie. Che l’epoca protegga col romanzo le sue ragioni, che essa trasferisca nella forma dell’arte le sue virtù, ciò rientra in un quadro più ampio ma non per questo generico. Il romanzo, nell’età che è sua, si installa al posto della filosofia che esso considera esaurita. Il romanzo è la vita che si afferma, la filosofia quella che declina. Lo scarto tra «contenuto» e «forma», tra «stile» e «idea» che vi è tra romanzo e filosofia, è la trappola in cui è presa la coscienza del filisteo che ingurgita dal primo «idee» come miele. La tensione tra stile e idea, toglie alla filosofia la sua aura, perché le si toglie lo stile che è affare, si ritiene, solo del romanzo. In questa forzata catarsi, tra l’altro, l’idea non è più vincolante, è un’idea come un’altra. Così il romanzo rende innocua la filosofia e rientra in quella rabbiosa reazione vitale che tenta di fare risalire la vita al suo selvaggio punto di partenza contro cui la filosofia ha come obbligo di immunizzarla.

Metafora per metafora. Il velo oscuro della metafora si stende su tutto… Il programma demetaforizzante di Mauthner, nel periodo eroico della critica del linguaggio, oscilla tra le necessità di attuarlo a qualsiasi costo e l’impossibilità di poterlo fare sino alla fine. Ma questa tensione, che dà una diversa forza a una critica della ragione che si dovesse presentare oggi con urgenza, dev’essere riportata all’età della catastrofe a cui essa appartiene. Allora l’impossibilità si sconta e se ne riducono all’essenziale i margini. «L’atto di redenzione esisterebbe – scrive Mauthner in Die Sprache (1906) – se si potesse portare avanti la Critica col suicidio silenzioso del pensiero e del linguaggio, se la Critica non dovesse essere portata avanti con parole che posseggono un sembiante di vita». La coscienza di una catastrofe incombente o già avvenuta ha tolto la vita alle parole e le idee sono uno spettro come se riproducessero un mondo che non c’è più. In questo frangente ogni metafora è un pietoso bluff per tenerlo ancora in vita.


Manlio Sgalambro, Cancàn in “La Sicilia”, 17 gennaio 1988, p. 3

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