Nota di servizio

Meditazioni provinciali

Domanda inutile. Il vecchio quesito se la virtù si può insegnare è passato da tempo alla pratica che lo ha fatto a suon di pedate. Da che lo scambio generalizzato siglò la bontà dell’intenzione col denaro, la volontà buona divenne ancora più buona. Oggi i resti del mondo morale si annidano negli interstizi, negli anfratti, anzi nei bassifondi, in cui ancora bene e male rappresentano qualcosa in proporzione al fatto che non si ha null’altro. Nello stesso momento il competente pratica la morale come uno sport dove il recordman lancia più in alto dell’altro mentre in basso la realtà ozia per i fatti propri.

La belle dame sans merci. La donna fatale (o ciò che resta di quanto si chiamò così nel bel secolo) compete col filosofo dei costumi a cui la comprensione dell’individuo sfugge sempre per un soffio. Mentre quella ha capito tutto alla prima occhiata.

Dialoghetto tra semplici.
— A: «Non c’è un’essenza del mondo».
— B: «Dica piuttosto che non vuole che ci sia. Non le conviene. E la capisco. Poiché, a quanto dice, essa non può essere Dio, cosa sarebbe questa essenza se non il diavolo?».

Principium individuationis. Dandies, blasés, Übermenschen, eroi, uomini rappresentativi… Dal brulicante genus si distaccano come schegge preziose o come esseri con i quali si torna alla clava. In ogni caso l’individuo, in un’epoca in cui l’individualità s’è estinta, è un fenomeno da baraccone. Come il nano o la buona barbuta.

Città. Vi si cammina con passi che l’accarezzano, delicati come ali di angeli, se la si guarda con gli occhi che hanno visto già la fine del mondo. Si immaginano palazzi e vie scomparsi, e che sterpaglie, erbacce, piante strane e mai viste crescano folte e aggrovigliate al posto che fu suo. Nascono allora, nell’animo, liete canzoni come se si stringesse al cuore l’amata. Le strade melmose sembrano ruscelli di gemme; le crepe delle case nodi per ricordarla meglio.

Neoplatonismo. L’idea del visibile alletta, non ciò che si vede.

Neoempirismo. Il nipotino di Bacone taglia corto col ricorso alla esperienza ogni volta che l’effettiva esperienza, la quale non ne porta scritto in faccia il nome, si fa avanti. Che egli la usi contro lo spirito dell’avo è scontato. Egli è l’erede per il suo contrario, agita le stagnanti acque delle filosofie propiziatrici. Il giovane inesperto scopre qualche inezia senza nemmeno saperlo. Egli lo deve proprio alla mancanza d’esperienza la quale si chiama, in casi come questi, empirismo.

Tartuffe. Il nostro amatissimo ipocrita non ha niente da nascondere. L’ipocrisia gli si legge in faccia in partenza. Egli non riesce nemmeno a celare ciò che la natura gli concesse affinché fosse celato. Lo sappiamo già da quando entra in scena porgendo a Dorine un fazzoletto perché essa si copra i seni traboccanti: «Ah! mon Dieu, je vous prie / Avant que de parler, prenez-moi ce mouchoir… / Couvrez ce sein que je ne saurais voir. / Par de pareils objets les âmes sont blessées, / Et cela fait venir de coupables pensées». La confidenza divertita di Molière che l’uomo è un animale passabile, fatta col sorriso in bocca, non convince a ragione. La possibilità che Tartuffe ritorni alla vera virtù – come essa viene chiamata dai buontemponi – è legata all’ipocrisia stessa, alla sua capacità mimetica. Ma nel dubbio Molière lo fa finire in prigione. L’ipocrita invece può diventare tutto, persino virtuoso. L’ipocrisia non è un «carattere» ma vuole essere la somma di tutti; prelude, cioè, all’odierna fungibilità universale. Si è entrati ora nell’età della modificazione del «carattere immutabile»: si diventa. Molière è precursore: mentre fissa i suoi caratteri (l’avaro, il misantropo, l’ipocrita, il malato…) anticipa in soldoni ciò che sta accadendo. In realtà non ci sono più caratteri o ce n’è uno solo: l’ipocrita.

Bistro. «Non c’è passione che non sia svelata da qualche particolare moto degli occhi», scrive Descartes nel Trattato delle passioni. Cartesiano è l’esame del bistro che Baudelaire conduce nell’Éloge du maquillage – “ce cadre noir rend le regard plus profond et plus singulier, donne à l’œil une apparence plus décidée de fenêtre ouvert sur l’infini”. Ma l’occhio listato a lutto guarda da essa solo un buco nella volta del cielo. Da questa finestra si vede piuttosto la natura femminile. Il nero e il rosso del belletto – dice ancora Baudelaire – rappresentano la vita. Quei segni in realtà danno l’addio all’amato che presto se ne andrà e salutano il nuovo.

Ancora domande. Per chi non ha coscienza civile (o solo insignificanti abitudini) essere grati alla società sarebbe come se si fosse grati al mondo che ci tiene stretti nelle sue grinfie. Insomma nulla dobbiamo alla società come nulla dobbiamo al mondo. Poco ci importa degli altri ai quali si lascia volentieri che tutti si interessino. Non è in questo che consiste l’ethos che ci chiama o quello che la misteriosa parola «bene» circoscrive a meraviglia. Esso oltrepassa noi come gli altri. È uno dei qualsiasi eventi del cosmo – l’alitare del vento, il rotolare di una pietra, la sabbia che si inzuppa d’acqua marina. Non esiste «bene» infatti che non passi attraverso il cosmo e vi si perda come uno dei suoi infiniti moti.

Cultura. La cultura – miserabile nome per l’antico «spirito» in cui sarebbe stato presente, così si sosteneva, lo stesso assoluto ripara ora i guasti prodotti dalla vita, divertendo. Si insiste dunque sul piacere che essa darebbe. Anche l’algoritmo, che contiene la tristezza della qualità, che fa piazza pulita di ogni quintessenza, viene chiamato a fare parte del gioco. Ci si balocca ormai con lo «spirito» stesso che col termine «cultura» si prende in giro da sé senza accorgersene.


Manlio Sgalambro, Nota di servizio in “La Sicilia”, 3 gennaio 1988, p. 3

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