In lotta con Dio

In lotta con Dio

Manlio Sgalambro e l’empietà

Quella che Manlio Sgalambro, lo strano filosofo autodidatta chiuso da sempre in un angolo della sua Sicilia, ci propone con il titolo Trattato dell’empietà (ed. Adelphi) è una teologia capovolta. Una teologia in cui Dio non è più la suprema origine di tutte le cose, degna per questo di onore, adorazione, amore, ma, proprio in quanto origine di tutte le cose, e cioè dell’ingiustizia e dell’orrore che dominano il mondo, meriti soltanto avversione, disprezzo, odio. Infatti, dice il filosofo, «un ordine losco del mondo è innegabile».
Per Sgalambro non si tratta di negare l’esistenza di Dio, cosa da fanciulloni ingenui, dal momento che Dio è dato insieme al mondo, secondo l’idea spinoziana (lo spinozismo è «l’autentica teologia naturale») del Deus sive natura. Bisogna dunque aborrire, non timidamente negare.
Sgalambro giudica finito il tempo della gnoseologia, in perpetua ricerca delle condizioni e dei limiti dell’umana conoscenza delle cose, che le restano perciò fatalmente estranee; e giudica finito anche il tempo dell’ermeneutica, che si accontenta di interpretare in modi diversi ciò che ritiene di non poter davvero attingere. Sente ritornare, poiché ritorna in lui, il tempo della teologia. Ma quale teologia? Il teologo, liberato dalla vecchia aberrazione religiosa, è per Sgalambro il portatore di un pensiero che osa nominare le cose e farne oggetto delle proprie manipolazioni mentali. Con la teologia ritorna il dogmatismo: «Il ritorno del dogmatismo riafferma la possibilità di conoscere le cose come sono».
Manlio Sgalambro, dunque ci dice finalmente qual è la verità, dichiarandoci fin dalla premessa che il suo è «un libro dogmatico, un sistema il quale non ne tollera altri», perché «la sua verità è quella che è». Quanto a quelli che pensano diversamente da lui, a cominciare dai più lodati filosofi del passato, l’oscuro siciliano non esita a ironizzare e a tirare le orecchie un po’ a tutti, concedendo con parsimonia qualche benevolo riconoscimento. L’inversione teologica per la quale il Sommo diventa l’infimo e, insieme, l’inversione filosofica per la quale i grandi diventano piccoli.
Sgalambro dice di riempire la sua vita con l’odio di Dio, il quale non risparmia espressioni insultanti: «Cosa sciocca e bruta», «fondo stupido dell’essere» che «in confronto a noi non è nulla». Sebbene si proponga di considerarlo freddamente come un semplice oggetto della sua distaccata riflessione, l’avversione, il disprezzo, l’odio fono sentimenti e passioni che rivelano un coinvolgimento anche troppo stretto (del resto, il nuovo teologo vede in Dio anche «qualcosa che, iniquamente, ama…»).
Come non può fare a meno di Dio, così Sgalambro non può fare a meno dei filosofi con i quali lungo le pagine del suo libro si confronta, citandoli con compiaciuta erudizione in diverse lingue. Eppure odia anche loro, come odia Dio, se non altro dichiarando la sua ripugnanza per l’atteggiamento di chi, anziché estrarre dalla propria mente con dogmatica catena la verità, sente il bisogno di appoggiarsi alle opinioni altrui.
Se deve esserci un «caso Sgalambro», credo che sia un caso psicologico. Qua e là inserisce nel testo, fatto di aforismi, delle note personali illuminanti. Pa esempio questa: «Chi accumulò sofferenza nella sua gioventù se ne serve ancora perché essa lo assista. A tanti anni di distanza egli s’è indurito e ha perso la tenerezza che gli restava. Chi accumulò sofferenza accumulò livore. È giusto che ora egli si circondi di dardi di vipera e denti di lupo… Egli sarebbe vissuto anche in una tana per topi e avrebbe scuoiato cadaveri, pur di poter pensare».
Pensare è la sua vendetta, vendetta di una delusione patita. Pensare è per Sgalambro, dichiaratamente, lo sfogo del suo rancore, di una «rabbia di essere» che si scaglia contro Dio vedendo in lui, o meglio in esso, l’origine, il riassunto dell’intera realtà. Odiare Dio è dare un nome alla viltà, all’indegnità, alla vergogna, alla mostruosità delle cose. Ne deriva un orgoglio, una superbia che vorrebbe essere e apparire smisurata, che sottolinea continuamente la propria arroganza, la propria empietà: «Il compiacimento sadico del nuovo teologo», con la sua «crudeltà».
L’individuo è già, in quanto tale, lecita e retta empietà, perché «con l’amore di se stesso si resiste disperatamente al dissolvimento» nell’Uno. Con uno sforzo che sa di essere condannato al fallimento, l’«egoismo» di Sgalambro lotta con Dio che lo dissolverà nella morte, «la bestia schifosa» che «complica tutto».
Eppure, il se stesso che dichiara di difendere ad oltranza non è la propria vita ma la propria mente. Al nuovo teologo (proprio, pare, come al filosofo gnoseologo o ermeneuta) importa solo «ciò che accade nella mente: in questo si avvolge come nel suo mantelluccio». Gode «delle idee delle cose», non delle cose, perché concepisce «la vita come avversaria dello spirito». «Il crollo del desiderio di Dio è collegato al crollo della volontà di vivere»: può essere una buona spiegazione psicologica, ma la paura della morte potrebbe spiegare a sua volta il crollo della volontà di vivere.
«Separati, allontanati da questa origine infetta, solo così troverai riposo. Ripudiala, volgi gli occhi lontano, fino ad arrivare a te, al culmine. Godi di te stesso. Risolviti in pensiero». Ed estingui in te, dopo aver ripudiato Dio, anche «ogni idea dell’altro». Fatto questo, si trova davvero il riposo, il godimento? Sgalambro ci parla di «gioia della separazione» da Dio e da tutti, del «supremo godimento dell’individuo che gioisce di se stesso». «L’appagamento è raggiunto». Ma ci dice anche che, come accadrebbe all’animal post coitum, «il teologo, dopo che conosce, è triste», che «non rimane più che il triste, misero odio», che l’esito è, comunque, «cadere nella disperazione», e per giunta nella frivola disperazione di un «annoiato dandy».
Nella sua inversione, «la teologia non è scienza della salvezza ma della perdizione», perché «l’individuo è già perduto». Tuttavia, «nella universale disperazione» consente di «avvertire il diletto che almeno nel pensiero tutto sia a posto»: nel proprio pensiero, naturalmente, dove secondo il più rigoroso solipsismo si dà tutta «la potenza della mente». Allora, per un momento, «attraverso il concetto teologico si salva un frammento di bellezza», nelle «pur meravigliose nozioni che il desolante significato non turba».
La pretesa più curiosa di Sgalambro è che con l’inversione teologica da lui proposta «si chiude il teismo occidentale che trionfa definitivamente». Questo si può dire solo se la mente è appunto, solipsisticamente, la mente di Sgalambro e se solo «la mente è il reale» (sebbene altrove ci dica che rispetto a Dio «è pura apparenza»).
Credo che un’obliqua chiave psicologica sia l’unica utile per leggere il solitario di Lentini dalla sottile «intelligenza accresciutasi – come egli stesso dichiara – vanamente». È una chiave che permette anche di comprendere come qualcuno possa aver scritto un libro di teologia, sia pure capovolta, cancellando i millenni ebraico-cristiani per dare come ovvio che «la vera teologia fosse avanti Cristo», fosse quella «pagana».


Sergio Quinzio, In lotta con Dio in “La Stampa”, 29 dicembre 1987

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