La teologia della perdizione

Il nuovo libro di Sgalambro

Trattato dell’empietà di Manlio Sgalambro – Adelphi, lire 16.000. Niente come un libro su Dio oggi ci sembra così fuori luogo. Niente ci sembra più inopportuno, dal momento che un discorso teologico presuppone un Dio che realmente esista. Consapevole di tale «impasse» il filosofo che vuole assaporare un discorso così desueto esaminerà di Dio «non tanto l’anodina esistenza ma questioni quali l’ignobilità di essa». Lo agevoleranno nella pratica di oggi gli esercizi di un tempo, come quella volta che «la meta del suo esercizio era riuscire a vedere niente pur guardando», o quell’altra in cui cercò aiuto in Avicenna e trovò che Dio «non habet quidditatem» e ne dedusse che egli non mostrava mai il suo «interno» ma semmai la sua esteriorità.
Gli saranno quindi compagni di strada un teologo come Melchior Cano – «maestro in Dio» –, da cui apprenderne la volgarità, e il suo cupo professionista Suárez. Per non perdere l’esercizio egli inoltre si abituerà «a disprezzare Dio tutti i giorni».
Che questa indagine abbia oggi il titolo di Trattato dell’empietà non è certo un caso, né che il filosofo sia Manlio Sgalambro, il quale già nel suo La morte del sole aveva mostrato come possa il riserbo della filosofia mescolarsi alla furia iconoclasta.
Ma si può essere altrettanto spietati nei riguardi di Dio? «Osservare freddamente Dio, caldamente lo fu già abbastanza», da questa massima, dice Sgalambro, deve partire il filosofo che considera Dio non diverso dal mondo. Si inaugura così una teologia naturale, la quale «pur non dando per scontata l’inesistenza di Dio», non vuole essere ignorante «circa questo concetto e ciò che esso contiene in sé».
In un’eventuale «classification des sciences» è chiaro che una teologia del genere prenderebbe il posto dell’ateismo, dottrina quest’ultima vacua, sentimentale e senza regole (non esistono infatti esercizi per negare Dio, il negare essendo unico esercizio e regola). Per converso la teologia naturale, nell’analizzare il mondo-Dio come su un vetrino, non può non far rilevare quel «contro di noi» che sentiamo intorno e che ci minaccia di distruzione; così come la conseguente sensazione che tutto questo derivi da qualcosa di vivente.
Timor Dei, panicus Dei. «L’empietismo non è che il nome ridestato del pessimismo». Nuovamente laddove la religione dice «così è» il filosofo dice «vediamo»; nuovamente si fa carico del peso del mondo (ma siamo onesti, a che servirebbe un filosofo senza carico?).
La paura del dio inglobante non è certo nuova, l’avevano forse anche i greci che per questo al dio unico avevano sostituito una moltitudine di dei. Certo è molto più facile impedire a più dei di fagocitarci che a uno solo. Pensiero anche questo molto occidentale, o magari di origine ebraico-semita ma pieno ugualmente della stoicità dell’«uomo bianco».
Del resto, come dice il filosofo, «il principio dell’allontamento è il punto più alto raggiunto dalla mente. Da Dio non ci si allontana mai abbastanza». Ma vi è anche un altro problema: siamo noi ad allontanarci o Dio? Chi odia di più tra Creatore e creatura? E in tal caso, che senso avrebbe la nostra empietà? O peggio, esiste l’empietà? E pensiamo a quel santo orientale che predicava dio esibendo la pudende e offrendo escrementi ai fedeli, o all’altro che disse «Dio ama i peccatori. Perciò commetterò un peccato osceno».
Concordiamo con Sgalambro quando dice: «La teologia non è scienza della salvezza ma della perdizione», poiché se l’individuo è già perduto «serve a rincarare la dose». Ma come non perdersi in questo disamore vicendevole?
Libro tragico e disperato dunque questo Trattato dell’empietà. Libro d’un solitario a dei solitari. Forse un libro per Dio. Chi ci dice infatti che la sua «quiddità» non sia proprio la solitudine?


Silvana La Spina, La teologia della perdizione in “La Sicilia”, 4 dicembre 1987

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